Tsipras ha perso e non poteva fare altro: il problema di Atene è l’euro

Alberto Bagnai 24 Febbraio 2015

Nel giudizio dei commentatori il battibecco fra Eurogruppo e governo greco è andato a finire male per quest’ultimo. Il peggio però deve ancora venire. Per mettere a fuoco la situazione dobbiamo riconoscere che qualunque fosse stato l’esito, Tsipras si sarebbe comunque trovato in difficoltà. Supponiamo infatti che una Germania miracolosamente rinsavita avesse deciso di abbonargli l’intero debito, e che una Troika convertita al keynesismo si fosse rimangiata le riforme, consentendogli di sostenere i redditi interni (con salario minimo, tredicesime e contratti nazionali). Accolto come un eroe, nel volgere di qualche mese Tsipras si sarebbe trovato alla casella di partenza: senza aggiustamento di cambio, qualsiasi aumento di reddito si sarebbe rivolto a prodotti esteri (attualmente più convenienti).

L’aumento delle importazioni avrebbe mandato in rosso la bilancia dei pagamenti, imponendo il ricorso al debito per pagare i fornitori esteri. Il problema greco è e resta la rigidità del cambio, implicita nella moneta unica. Ma Tsipras l’euro vuole difenderlo, nonostante sia chiaro a tutti che per la Grecia è insostenibile: lo ha ammesso lo stesso vicepresidente della Bce (Atene, 23 maggio 2013). Visto che tutti, Bce inclusa, sanno quale sia il problema, il fatto che un governo progressista lo neghi lascia un po’ interdetti, ma mai quanto l’esegesi che se ne dà a sinistra. Tsipras, si dice, difende l’euro perché vuol far esplodere le contraddizioni del sistema dal suo interno (a me pare una boiata, ma un suo sapore “di sinistra” ce l’ha). I più scaltri aggiungono: se Syriza avesse nominato l’euro in campagna elettorale, gli elettori, terrorizzati, si sarebbero rivolti altrove. Che strano! È lo stesso argomento che un altro movimento populista, il 5 stelle, ha usato nel 2014 per non aprire un dibattito sul tema della moneta unica: “Parlandone perderemmo le elezioni, dobbiamo mentire agli elettori per il loro bene”. Un atteggiamento che ha due problemi.

Il primo è di ordine etico: nascondere agli elettori qualcosa “per il loro bene” è paternalismo incompatibile con un genuino spirito democratico. Nulla di nuovo: i padri fondatori ben sapevano che l’euro non avrebbe funzionato, ma decisero di nasconderlo agli elettori, nell’attesa che le crisi provocate dalla moneta unica aprissero “finestre di opportunità” per una maggiore coesione politica (lo ammise Prodi nel 2001, lo ha ammesso Amato nel 2013). Qualcuno dirà: “Be’, negando le criticità dell’euro Tsipras combatte il paternalismo degli europeisti con le loro stesse armi: non facciamo gli schizzinosi”! Qui entra il secondo problema: la Realpolitik non tutti possono permettersela. Rifiutandosi di riconoscere le criticità dell’euro, e proponendosi di mantenere la Grecia al suo interno, Tsipras è arrivato alla trattativa senza un credibile piano di uscita. Ma un piano B è l’unica possibile arma di pressione sui governi del Nord. Come scopre oggi Munchau sul «Financial Times», e come Paolo Savona e Claudio Borghi Aquilini ci dicono in Italia da anni, un negoziato senza alternativa credibile è destinato al fallimento: se ti dicono di no che fai? Non potendo dire “arrivederci”, cali le brache. D’altra parte, gli elettori ai quali Tsipras sta dicendo che l’euro è un’opportunità, come accoglierebbero la minaccia di uscirne? Chi mente è prigioniero delle proprie menzogne. Sta scritto nei Vangeli: “la verità vi renderà liberi”. Ah, quanto sarebbe tutto più facile se solo i Vangeli li avesse scritti Marx…

Alberto Bagnai
Il Fatto Quotidiano, 24 febbraio 2015

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