L’Europa dei big e la politica dei passi falsi

Giorgio La Malfa 1 July 2016

Se all’indomani dell’esito del referendum inglese si voleva dare il senso di una maggiore unità dell’Europa e se addirittura si voleva attribuire a una specie di direttorio europeo, composto dalla Germania, dalla Francia e dall’Italia, un ruolo, un ruolo trainante dall’Unione nella direzione di una più stretta integrazione, bisogna dire che si è partiti con il piede sbagliato. Altro che visione comune dei tre paesi: le secche dichiarazioni della signora Merkel sull’intangibilità delle regole europee mostrano che evidentemente, intorno a quel tavolo a tre, sono emerse posizioni molto diverse fra loro. Dunque l’Europa è ben lontana da un comune sentire sulla direzione verso cui muovere all’indomani della decisione inglese.

In realtà questa è la continuazione del modo approssimativo con cui è stata affrontata la questione della campagna referendaria inglese. Non c’è solo l’illusione coltivata da Cameron di convocare un referendum e poi vincerlo. Appare assai poco meditato l’atteggiamento delle leadership europee che, nella speranza di spaventare gli elettori inglesi ed indurli a votare per il remain, hanno prospettato conseguenze fosche e scenari catastrofici del dopo Brexit. Come si era già visto lo scorso anno nel referendum greco, le minacce e i ricatti non spaventano gli elettori, che spesso reagiscono confermando di voler essere liberi nel voto. Spaventano semmai i mercati e provocano sconquassi finanziari che vanno bene aldilà delle conseguenze effettive delle decisioni referendarie e che è poi difficile riassorbire.

È stato anche un errore convocare, dopo il brexit e prima del Consiglio Europeo, un vertice a tre fra la Germania, Francia e Italia. In Europa la relazione «speciale» fra Francia e Germania non ha mai entusiasmato nessuno, ma è sempre stata accettata giacché si è sempre saputo che l’ostilità franco-tedesca era stata alle origini delle catastrofi europee del XX secolo. I due paesi hanno da questo punto di vista uno status particolare di carattere storico, purché essi non rivendichino un peso ed uno status speciali sotto il profilo economico e politico. Ma dare l’impressione che in seno al Consiglio Europeo vi siano paesi di prima e di seconda categoria è il modo più sicuro per creare un clima ostilità e di sgarbi reciproci. Cioè di paralisi.

Infine una volta convocato il vertice a tre, è emerso che dietro lo slogan «più Europa» si celano opinioni largamente diverse fra loro. Francia e Italia pensano che le politiche dell’austerità siano colpevoli di larga parte del distacco degli elettori dall’idea stessa di Europa. È un’idea che ha un fondamento, ma che urta frontalmente con la posizione tedesca che ritiene che i problemi europei nascano sopratutto da una strategia troppo incerta e troppo esitante lungo la strada del risanamento finanziario. È vero come ha ricordato il premier Renzi, che all’inizio degli anni 2000 la Germania violò i parametri di Maastricht ma essa può dire che dopo una breve violazione delle regole da parte sua, i conti tedeschi sono andati a posto, mentre altri paesi (a partire dalla Francia) dopo avere violato le regole, hanno continuato a violarle e tuttora le violano.

Dunque «più Europa» significa meno rigore per Francia e Italia, ma significa più rigore per la Germania. E la Germania va compresa, almeno quanto si comprendono le esigenze di altri paesi, perché anche la cancelliera Merkel subisce l’urto delle opinioni pubbliche interne che la accusano di cedere troppo sul terreno dell’immigrazione e su quello del rigore. Tutti vogliono vincere le elezioni e ciascuno ha i propri ostacoli.

Evidentemente al tavolo dei 3 e poi forse anche dei 27 si è parlato con troppa facilità di nuova flessibilità per i bilanci e così la Merkel deve avere deciso che andavano posti dei paletti chiari. Il primo e più forte sulle banche. La «vittima» di questo pasticcio è la riapertura in termini confusi della questione delle banche italiane, che sembrava essere stata definita in maniera abbastanza soddisfacente nelle scorse settimane. La costituzione del cosidetto Fondo Atlante partecipato da banche assicurazioni, Fondazioni e Cassa Depositi e Prestiti aveva posto fine a una lunga fase di incertezza e di confusione interna nei confronti dell’Europa e sembrava avere individuato una linea strategica di fondo.

Con la costituzione del Fondo Atlante e la sua dotazione di 4 miliardi di euro, l’Italia aveva dato l’impressione di avere preso la misura delle possibili difficoltà del sistema bancario e di avere individuato lo strumento di intervento necessario a farvi fronte. Fin dall’inizio vi era stato qualche dubbio che la cifra raccolta dal Fondo potesse bastare ad affrontare la duplice esigenza di ricapitalizzare alcune banche, come la Popolare di Vicenza e Veneto Banca, che avevano sostanzialmente perduto tutto il proprio capitale, e quella di alleggerire i portafogli bancari di una parte almeno dei crediti in sofferenza. Si era ipotizzato di conseguenza che potesse essere ampliata la dotazione del Fondo o creato un secondo fondo per gli interventi ulteriori. Ma il messaggio lanciato dal Governo, dalla Banca d’Italia e dallo stesso sistema bancario era che la situazione era sotto controllo.

All’improviso, nell’eccitazione di essere convocati al vertice, sono cominciate a ballare le cifre più inverosimili sui giornali. Un quotidiano ha accennato alla cifra di 40 miliardi di euro. Altre fonti ufficiose hanno parlato di invocare un articolo dei trattati europei per chiedere la sospensione delle normative sugli aiuti di Stato. Ora è venuto lo stop della Merkel e l’imbarazzata risposta del governo italiano che ha detto di voler rispettare le regole, ma di essere anche in condizioni di garantire «i denari dei correntisti e dei cittadini». A questo punto serve al più presto una presa di posizione chiara del Governo, nella persona del ministro dell’Economia. Piercarlo Padoan, che giustamente gode di molto rispetto in sede internazionale, faccia il punto della situazione. Precisi di quanto oggi il Governo italiano ritiene abbiano bisogno le banche italiane e per fare cosa. Quanto per ricapitalizzare e quanto per liberarsi dei crediti a vario grado «incagliati». Dica se questi interventi richiedano un sostegno pubblico e in che misura.

Certo come inizio del dopo Brexit non c’è molto di cui vantarsi. Forse qualche elettore inglese incerto se abbiano fatto bene o male i suoi concittadini a votare per il leave concluderà che in fondo la Gran Bretagna lascia una zona di alta confusione e di forti contrasti. Sarebbe stato meglio che questo non succedesse. Ma ora parli in Italia il ministro dell’economia. E si muovano con maggiore prudenza tutti i protagonisti sulla scena europea.

Giorgio La Malfa
Il Mattino, 30 giugno 2016

Share

Related