Ma in Italia la ripresa non c’è ancora

Giorgio La Malfa 27 February 2017

L’andamento generale dei prezzi è uno dei segnali più chiari e più precisi dello stato di salute di un’economia. Se i prezzi corrono, vuol dire che l’economia tira, e che le imprese faticano a tenere il passo con la domanda. In questi casi c’è semmai da temere che cominci una rincorsa fra i prezzi ed i costi che faccia salire di colpo i tassi di interesse e che prepari una crisi improvvisa. Per questo, quando nacque l’euro, si decise che la Banca Centrale Europea avesse, per statuto, il compito di evitare l’inflazione.

Ma, oltre al problema della febbre dei prezzi, c’è anche il problema opposto e cioè che i prezzi siano fermi o addirittura calanti. Questo non è il segno di salute, al contrario è il segno che l’economia è debole, e che la produzione tende a superare la domanda. Quando è così, i prezzi scendono, ma le imprese falliscono e soprattutto scende l’occupazione. E, come c’è il rischio di una rincorsa fra prezzi e costi in salita, così c’è il rischio altrettanto grave, se non addirittura più grave, di una rincorsa in discesa in cui i prezzi scendono, le imprese chiudono e la disoccupazione aumenta. L’Europa (e l’Italia) sono in questa seconda situazione da molti, da troppi, anni.

Dopo il 2008, per anni, l’Europa ha finto di non vedere e continua ancora così. Anche la Banca Centrale Europea ha fatto a lungo finta di non vedere questo problema. Finalmente, con Draghi, la Bce ha riconosciuto che il suo obbligo statutario di mantenere stabili i prezzi vale sia quando i prezzi crescono, ma anche quando i prezzi scendono. Per questo, a partire dal 2012, la Banca Centrale Europea si è impegnata a sostenere ripresa dell’economia dell’eurozona, abbassando i tassi d’interesse e tenendoli bassi con l’acquisto di enormi quantità di titoli pubblici. Fino a quando? Fin quando i prezzi cominceranno a crescere su base annua fra l’1% e il 2%, perché questo vorrà dire che finalmente l’economia è ripartita, anche se senza febbre da inflazione.

A che punto stiamo? Se si guardano i dati diffusi oggi da Eurostat per il mese di gennaio del 2017, si potrebbe avere l’impressione che qualcosa si stia muovendo e che siamo sulla strada della ripresa. L’indice medio segna un aumento dell’1,8% e perfino in Italia si è registrato un aumento dell’1%. Ma se si guarda alle ragioni di questa fiammata o meglio a questa «fiammatina» dei prezzi, si vede che essa non riflette tanto la ripresa interna, ma fattori esterni, in particolare l’aumento, dopo molti anni, dei prezzi del petrolio e, per l’Italia, l’aumento dei prezzi di alcuni prodotti alimentari resi scarsi dalle particolari condizioni climatiche del mese di gennaio.

Non bisogna quindi illudersi che l’indice dei prezzi indichi una ripresa economica dell’eurozona e tanto meno dell’Italia. In realtà non ci siamo, né in Europa, né tanto meno in Italia. La crescita è debole in Europa; è ancora praticamente nulla in Italia. Ma non c’è da sorprendersi: la logica europea che mette in testa a tutto il pareggio del bilancio esclude ogni sostegno fiscale alla ripresa. E se è così, come può ripartire la crescita? Qualcuno che insegna nell’empireo dell’Università Bocconi continua a pensare (ed a scrivere) che il diritto di licenziare a piacimento sia un incentivo alla crescita degli investimenti (Corriere della Sera di ieri). Ma su questo avrebbe avuto di che riflettere in base all’esperienza italiana di questi anni e soprattutto alla condizione del Mezzogiorno.

L’Italia è ancora all’anno zero della ripresa, mentre l’Europa insiste nella richiesta di ridurre ulteriormente il deficit; laddove, se essa avesse buon senso, dovrebbe chiedere, non di tagliare il deficit, ma di fare spese pubbliche ben fatte. Dunque, dal momento che l’aumento dei prezzi non dipende dalla ripresa economica, ma da fattori esterni o da movimenti momentanei, bisogna che la Bce continui nella sua politica. Ma il rischio è che questa fiammata o fiammatina dei prezzi europei rafforzi le richieste tedesche di concludere in fretta con il QE, cioè con l’acquisto dei titoli pubblici e che la Bce favorisca l’aumento dei tassi d’interesse.

È chiaro da molti anni che i nostri interessi divergono profondamente da quelli della Germania, ma oggi questa discussione dovrebbe aprire gli occhi a tutti. Con il 4% di disoccupazione, la Germania non ha bisogno di alcun ulteriore stimolo agli investimenti. Al contrario è pronta a tassi di interesse più alti ed anche a un tasso di cambio giù alto rispetto al dollaro. Oltretutto, con tassi di interesse più alti, potrebbero rimpinguare un po’ i bilanci delle loro banche che sono mal gestite quanto quelle italiane e forse di più. Le banche tedesche non vedono l’ora di scaricare sui consumatori il costo del proprio risanamento.

Ma noi? Se i tassi d’interesse ripartono, avremo non solo minori stimoli alla ripresa, ma ancora maggiori problemi con il debito pubblico. Dovremmo resistere alla richiesta rivolta alla Bce di alzare i tassi di interesse. Per la Germania, tassi più alti e un euro più alto non sono un problema. Per noi sono problemi drammatici, che si aggiungono a una situazione difficilissima lasciata senza risposta da troppo tempo.

Come si vede, la moneta unica è un matrimonio male assortito fra Paesi che hanno esigenze economiche e problemi fra loro molto diversi. Per ora Draghi è riuscito nel difficile miracolo di individuare una linea che in qualche modo soddisfacesse o scontentasse in misura eguale gli uni come gli altri. Ma ora i nodi vengono al pettine. E l’Italia vede in questi giorni la crisi del partito che ha costituito in questi anni il perno del Governo. Per questo gli interrogativi si fanno più angosciosi.

Giorgio La Malfa
Il Mattino, 23 febbraio 2017

Share

Related