Brexit, il rimedio dell’economia alle false isterie dei governanti

Alberto Bagnai 7 Luglio 2016

Ci siamo già detti che il vero nodo della Brexit è quello politico: ce lo confermano tanto la cronaca quanto un’analisi fattuale delle conseguenze economiche. Partiamo dal breve periodo. Il risultato del referendum ha scatenato una fisiologica ondata di volatilità sui mercati finanziari. La Borsa di Londra, che tifava “remain”, ha ceduto, recuperando in meno di una settimana. Il FTSE 100, che il 23 giugno era a 6338,1 una settimana dopo era a 6504,3. I media catastrofisti sono stati smentiti dai dati e dalle dichiarazioni di tante multinazionali che hanno confermato di non voler abbandonare Londra. Veniamo alla sterlina, che ha ceduto di circa il 10% rispetto al dollaro e dell’8% rispetto all’euro, stabilizzandosi in un paio di giorni. Non c’è stata la caduta libera di cui fantasticavano certi gazzettieri, ma non c’è stato nemmeno un recupero, né è prevedibile che ci sia. Il cambio della sterlina era sopravvalutato, per due motivi: la pesante svalutazione competitiva praticata da Draghi a partire dalla metà del 2014, che ha portato una sterlina a costare 1,4 euro (erano 1,2 a inizio 2014); le politiche di austerità imposta da Bruxelles, che hanno compresso i redditi dei cittadini dell’Europa continentale, e quindi, fra l’altro, i loro acquisti di beni inglesi, aggravando il deficit commerciale del Regno Unito.

Queste scaltre mosse dei nostri apprendisti stregoni hanno messo in difficoltà il resto del mondo, che ha reagito: la Cina a metà del 2015 (svalutando), gli Usa a fine aprile 2016 (mettendo la Germania nella lista nera dei manipolatori di valuta), e la Gran Bretagna approfittando della Brexit (ottima scusa per riportare il cambio alla casella di partenza, sfruttando razionalmente l’irrazionale isteria dei mercati). E nel lungo periodo cosa dobbiamo aspettarci? Dalla Brexit proprio niente. Il nostro problema è un altro: la crisi del sistema bancario, un’altra figlia dell’austerità, che ha compresso i redditi e quindi la capacità di famiglie e imprese di rimborsare i propri debiti. Certo, i politicanti useranno la Brexit come capro espiatorio. La banca tale salta? Colpa della Brexit! Il deficit pubblico esplode? Colpa della Brexit! Una canzoncina che sentiremo spesso, ma gli studi disponibili chiariscono che le cose non stanno così, e per capire perché basta considerare lo scenario peggiore, quello in cui la Gran Bretagna non riesce a concludere alcun accordo con l’Ue e deve applicare le regole dell’Organizzazione mondiale per il commercio (Omc): i famigerati dazi! Ora, basta andare sul sito dell’Omc per rendersi conto del fatto che questi non sono un enorme problema. Il loro livello medio all’interno dell’area Ocse (che esprime la maggior parte del commercio britannico) è inferiore al 2%. E voi pensate che l’Inghilterra, sopravvissuta a una svalutazione competitiva dell’euro pari a quasi il 20% sarebbe distrutta da dazi attorno al 2%? Chi pensa che verrebbero applicate percentuali punitive o chi teme che il prezzo del whisky raddoppierebbe ignora che la Gran Bretagna con le sue importazioni sostiene significativamente la crescita tedesca. Avete fatto caso alla prudenza della signora Merkel? Lei sa che le esportazioni nette della Germania verso la Gran Bretagna sono superiori a 35 miliardi di euro. Ma, si dice, c’è il settore finanziario: non sarebbe isolato dall’Europa? E questa non sarebbe una catastrofe per l’Inghilterra? Può essere utile ristabilire le proporzioni.

L’Eurostat chiarisce che la finanza conta per il 7,9% del Pil britannico. Più che in Italia (5,8%) ma meno che in Olanda (8,1%).Anche nel caso peggiore, quello di un’applicazione “punitiva” delle regole del Gats (l’accordo generale sul commercio dei servizi, disciplinato dall’Omc), l’Inghilterra non scomparirebbe dalle carte geografiche: ne rimarrebbe pur sempre il 92,1%! E poi, chi avrebbe un interesse economico a punire così la Gran Bretagna? Certo non le nostre illuminate élite, alle quali torna molto comodo far gestire i propri affari e i propri risparmi da un sistema finanziario solido perché supportato da una banca centrale che a differenza della Bce è libera da condizionamenti tedeschi e può quindi intervenire per tempo (come ha fatto dall’inizio della crisi). Insomma: alle élite conviene importare servizi finanziari inglesi (cioè mettere i loro soldi al sicuro) tanto quanto agli inglesi conviene esportarli (cioè farli fruttare).

Risalta ancora una volta come il terrorismo dei media risponda a una razionalità puramente politica: i nostri governanti vogliono scongiurare un evento che sta mettendo in luce la loro pochezza, indicando una strada che altri potrebbero essere tentati di seguire. Ma se in tanti vogliono uscire dall’Unione europea, la colpa è di chi l’ha concepita e di chi la governa, non di chi ha indicato la porta. Usare il pugno di ferro contro l’Inghilterra, vellicare i risentimenti nazionalistici della Scozia, insultare gli elettori inglesi servirà solo a confermare agli altri eventuali secessionisti che stanno facendo la cosa giusta.

Alberto Bagnai
Il Fatto Quotidiano, 6 luglio 2016

 

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