L’inevitabile caduta della Francia di Hollande

Alberto Bagnai 22 Gennaio 2014

Ricordate Jurassic Park? Quando i T-Rex sfondano le barriere, il dottor Malcolm commenta sconsolato: “Detesto aver sempre ragione”! Ma lui era un matematico. Per un economista, viceversa, aver ragione è una sensazione tanto rara quanto, devo ammetterlo, confortante.

Quando nel maggio 2012 François Hollande vinse le elezioni, in Italia fu un tripudio! Finalmente il compagno Hollande, esponente di spicco della socialdemocrazia europea, sarebbe andato a “battere i pugni sul tavolo” da Angela Merkel, riequilibrando l’asse franco-tedesco e con esso le sorti dell’Europa. Questo pensavano gli ingenui fautori del “sogno europeo”. Il 6 maggio 2012 mi permisi di sottolineare nel mio blog, goofynomics.blogspot.it, che questa idea era totalmente infondata, per due motivi che chiaramente emergevano dai fondamentali macroeconomici.

Il primo era che l’indebitamento estero della Francia stava aumentando, lentamente ma inesorabilmente, in modo molto simile a quello dell’Italia. In tutta evidenza la Francia, oltre ad avere una situazione fiscale più deteriorata della nostra (nel corso della crisi il suo deficit pubblico aveva costantemente superato il nostro di due punti di Pil, raggiungendo il 7.5% del Pil nel 2009), aveva anche un colossale problema di competitività, che la costringeva a ricorrere ai creditori esteri per finanziare l’eccesso di importazioni.

Il secondo motivo era che il principale creditore della Francia era, guarda un po’, la Germania. Ora, caso vuole che debitori e creditori abbiano interessi divergenti (e non devo spiegarvi il perché): quindi a chi continuava a parlare di “asse franco-tedesco” si sarebbe dovuto rispondere con una bella risata in faccia.

L’ovvia conseguenza di questi due fatti era che Hollande sarebbe stato un agnellino all’estero, per non indisporre i creditori, e un lupo all’interno, perché in assenza del meccanismo di aggiustamento dato dal cambio, i conti esteri si possono riequilibrare solo con l’austerità: tagliando i redditi, in modo da contenere i consumi e quindi le importazioni. Insomma, Hollande si sarebbe aggiunto alla lunga lista dei macellai col grembiulino rosso (dopo Prodi, Schroeder, ecc.), cioè dei politici di “sinistra” chiamati a far macelleria sociale.
Inutile dire che entrambe queste facilissime previsioni si sono avverate.

Non so se Hollande abbia battuto i pugni da qualche parte: certo non a casa della Merkel. Del resto è poi emerso che lui per il gentil sesso ha un debole, e comunque il tavolo di una donna non si picchia nemmeno con un fiore: di queste eventuali percussioni infatti nessuno si è accorto, e soprattutto non la Merkel, la cui intransigenza in Europa è anzi aumentata dopo le elezioni, nonostante le concessioni che ha dovuto fare ai socialdemocratici tedeschi per riuscire a formare un governo. Ovvia riprova di un altro principio che gli ingenui dimenticano: un socialdemocratico tedesco è in realtà un tedesco socialdemocratico. Prima viene il paese, poi il partito. Per questo proposte razionali, come quella di armonizzare i mercati del lavoro europei adottando uno standard retributivo comune, in sede europea urtano sistematicamente contro l’opposizione dei sindacati tedeschi. L’euro non affratella i proletari.

Debole con i forti, Hollande è stato forte coi deboli, come da copione, facendo proprio quella cosa che in campagna elettorale aveva rimproverato a Sarkozy: aumentare l’Iva per finanziare, col ricavato, politiche di offerta (riduzione del cuneo fiscale, ecc.). Si dà il caso che l’Iva sia un’imposta fortemente regressiva: colpisce i poveri più dei ricchi, il che rende un suo aumento non esattamente “di sinistra”, soprattutto poi se convogliato verso politiche di offerta, in un momento di crisi di domanda.

Ma lo scopo di questi aumenti, in Italia come in Francia, non era quello di ottenere risorse da destinare a politiche espansive, a fantomatici recuperi di competitività. Era invece quello di comprimere i consumi per riequilibrare i conti esteri, a costo di ridurre il gettito (come è successo da noi). Piano piano ci sono arrivati tutti: a novembre del 2012 l’«Economist» si accorse (con grande stupore) che la Francia era il nuovo grande malato dell’Eurozona, e ora, a gennaio 2014, tutti si accorgono che Hollande è costretto a fare politiche non proprio favorevoli agli interessi dei suoi elettori. Questi ultimi, veramente, se ne sono accorti da un pezzo, e il gradimento di Hollande è in caduta libera ormai da un anno, raggiungendo a novembre scorso il 15%.

Cosa possiamo imparare da questa storia? Almeno due cose: intanto che, come spesso accade, le dinamiche del dibattito francese hanno anticipato quelle di casa nostra. Lo psicodramma sulla Tva sociale (l’Iva portata ad abbattimento del cuneo) ha preceduto il dibattito nostrano su Iva e cuneo fiscale, entrambi i dibattiti essendo strumentali e fasulli. Parimenti, la parabola della popolarità di Hollande ci illustra quale sarà la fine del governo Monti bis (quello guidato dall’on. Letta).

C’è anche un insegnamento più generale: per capire se un paese si può permettere l’euro, basta osservare la dinamica del suo indebitamento estero. Caso mai vi interessi, dall’entrata nell’Eurozona sono in caduta libera anche i saldi esteri dei virtuosi Belgio, Finlandia e Lussemburgo, ridottisi rispettivamente di 9, 7 e 5 punti di Pil dal 1999 al 2013 (e solo quello del Lussemburgo, che era al 10% nel 1999, è rimasto in territorio positivo). Così ora sapete anche di cosa parleranno i giornali nei prossimi mesi.

Alberto Bagnai
Il Fatto Quotidiano, 22 gennaio 2014

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