Il FMI difende l’euro perché gli dà lavoro

Alberto Bagnai 9 Aprile 2014

Il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) entra con sempre maggior insistenza nel panorama dell’informazione. Da quell’istituzione tecnica, remota, che si occupava di salvare dalle crisi finanziarie paesi più o meno esotici, il Fmi è diventato un organo che con cadenza pressoché quotidiana esercita una funzione di indirizzo politico non solo dei governi nazionali che si sono rivolti a lui (come quello greco), o che non gli si sono rivolti (come il nostro), ma anche di istituzioni sovranazionali indipendenti (è di ieri la notizia del dissenso fra Bce e Fmi su come andrebbe gestita la politica monetaria in Europa).

Ma cos’è il Fmi, quando e come nasce? Ricordarlo è utile per far capire l’evoluzione, o meglio l’involuzione, del pensiero economico nell’ultimo mezzo secolo. Quando nel 1944 gli stati riuniti a Bretton Woods decisero di adottare un sistema di cambi fissi basato sul dollaro, due nozioni erano ancora patrimonio comune: primo, che i cambi fissi avrebbero creato squilibri di bilancia dei pagamenti; secondo, che un sistema di pagamenti internazionali non può convivere a lungo con simili squilibri.

Con cambi perfettamente flessibili il problema, in teoria, non si pone. Supponiamo che l’Italia debba fare molti pagamenti in marchi, perché importa molto dalla Germania. Il libero mercato farà salire il prezzo del marco, e lo squilibrio (esportazione per la Germania, importazione per l’Italia) verrà sanato dal fatto che i beni tedeschi diventano meno convenienti. Coi cambi fissi invece il problema esiste e va gestito. Se non lo si fa, l’importatore netto alla lunga deve indebitarsi, e cosa succede poi lo stiamo vedendo.

A Bretton Woods questo dato era chiaro, e per gestire gli squilibri vennero prese tre misure. Primo, i cambi erano aggiustabili: in caso di squilibri fondamentali un paese poteva negoziare un riallineamento; secondo, veniva creato il Fmi, per erogare credito a breve termine ai paesi in difficoltà temporanea coi pagamenti esteri; terzo, se un paese manteneva una posizione di surplus troppo a lungo, la sua valuta poteva essere dichiarata scarsa (perché tutti gli altri ne avevano bisogno per comprare i suoi beni). Questa dichiarazione autorizzava i suoi partner commerciali a prendere misure restrittive (dazi, contingenti) nei suoi riguardi. Puro e semplice buon senso.

Pensate invece all’euro. Il cambio non è aggiustabile: un euro tedesco varrà, finché dura, quanto un euro greco. Inoltre, non esiste alcun organismo europeo deputato a rifinanziare gli squilibri temporanei di bilancia dei pagamenti dei paesi membri. Anzi: le nostre istituzioni hanno negato che simili squilibri si potessero mai verificare. Lo studio One market, one money della Commissione Europea lo dichiarava nel 1991: la bilancia dei pagamenti non sarà più un problema in Europa, i mercati finanzieranno sempre chi se lo merita.
Com’è andata s’è visto: in mancanza di buon senso, e di istituzioni europee, alcuni paesi europei si son già dovuti consegnare al Fmi, certificando così il proprio ingresso nel terzo mondo finanziario, quello dove i governi si indebitano in una valuta che controllano.

E qui dovrebbe sorgere una domanda: ma perché mai un’istituzione nata negli Stati Uniti per garantire un sistema basato sul dollaro è così impegnata a preservare l’euro? Non s’era detto che gli americani son tanto invidiosi del benessere che l’euro ci procura?

La risposta è in quanto vi ho riportato. Il Fmi nasce per ovviare agli squilibri provocati dal cambio fisso. Per questo, da quando Nixon nel 1971 ha fatto saltare il sistema di Bretton Woods, il Fmi ha difeso, ovunque nel mondo, i sistemi che, imponendo la rigidità del cambio, creano quegli squilibri senza i quali sarebbe disoccupato. Oggi difende la moneta unica europea come ieri, nel 1992, difendeva la moneta unica sovietica, opponendosi allo smantellamento dell’area del rublo.

Pensate che paradosso: i russi volevano andare verso le valute nazionali per procedere verso il mercato, ma a noi hanno detto che avremmo favorito il mercato abolendole. Naturalmente anche allora operava la cosiddetta “condizionalità”: o fate come vi diciamo noi, o non vi finanziamo; e anche allora le ricette proposte erano contraddittorie: in Europa si è imposta un’austerità che contraddice la crescita, alla Russia si imponeva una bassa inflazione contraddetta dal fatto che le singole repubbliche mantenevano i propri poteri di emissione della moneta unica (il rublo).

Sabato 12 aprile una protagonista di questa vicenda, Brigitte Granville, che da consulente del premier Gaidar si oppose al Fmi e gestì lo smantellamento dell’area del rublo, sarà a Roma per il convegno “Un’Europa senza euro” (www.asimmetrie.org). Un’occasione per sentir parlare di moneta unica, e degli scenari che essa apre, un’economista che in vita sua si è occupata di questo e non di altro (come la maggioranza degli opinionisti nostrani), opponendosi alla dittatura del pensiero unico in nome della libertà.

Alberto Bagnai
Il Fatto Quotidiano, 9 aprile 2014

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