Il prezzo delle bugie sul rigore

Alberto Bagnai 29 Giugno 2015

Lasciato a chi è più competente il compito di seguire la cronaca convulsa di questi momenti, provo a delineare qualche scenario. Non se ne abbiano i tromboni sfiatati del “primato della politica”: il dato dal quale partire è quello economico. L’austerità non è un futile capriccio, né un segno di virtù, della signora Merkel. L’austerità è la conseguenza inevitabile dell’adozione dell’euro: se non puoi svalutare la moneta, per promuovere le esportazioni dalle quali ottenere la valuta forte necessaria occorre per saldare i debitori esteri, devi svalutare il lavoro.

Che l’aggiustamento fiscale sostituisca quello di cambio oggi è sancito dal “Rapporto sul completamento dell’Unione Economica e Monetaria”, firmato il 22 giugno dai cinque presidenti (Juncker, Tusk, Draghi, Dijsselbloem e Schulz). Siamo così nella situazione paradossale in cui il compito di per sé rivoluzionario di dire la verità viene lasciato alle istituzioni antidemocratiche dell’Unione, mentre un leader di sinistra pretende di promuovere la democrazia con un quesito intrinsecamente menzognero e sostanzialmente inutile, dato il mandato esplicito ricevuto e il consenso di cui gode: “volete l’austerità?” Il quesito corretto sarebbe: “volete l’euro?”.

Certo, Tsipras dimostra abilità tattica: lascia la palla ai creditori, scaricando su di loro la responsabilità di una rottura. Questa ormai non è improbabile. Al Draghi che il 4 aprile 2013 affermava spavaldo “No plan B”, subentra oggi un Eurogruppo che pare stia più pragmaticamente cercando di capire come gestire l’uscita della Grecia. Tsipras dà anche prova di coerenza: non va dimenticato che il suo governo è l’unico che (fino ad oggi) non abbia dato prova di totale subalternità all’Europa. Né Holande né Renzi ci sono riusciti, pur partendo da posizioni meno deboli. Riconosciuti i suoi meriti, resta da chiedersi perché sia così necessario per Tsipras attribuire alla cattiva volontà altrui la responsabilità di una decisione che, secondo il parere dei commentatori più autorevoli, dovrebbe invece prendere lui, nell’interesse del suo Paese.

Qui torna in evidenza il difetto di strategia di Tsipras. Per raggiungere il potere, Tsipras ha dovuto mentire, proponendo agli elettori l’euro come un valore positivo, uno status symbol da difendere a ogni costo, il segno tangibile del riscatto della nazione ellenica. L’uscita della Grecia dall’euro verrebbe quindi vissuta come una sconfitta, scatenando risentimenti nazionalistici e alimentando l’opposizione a Syriza.

Forse queste dinamiche politiche interne offrono la lettura più sensata di quello che in definitiva è un referendum su Tsipras. Una uguale abilità tattica da parte dei creditori suggerirebbe loro di venire incontro a Tsipras, facendogli concessioni ma tenendolo intrappolato nell’euro. Lo lascerebbero così schiacciato sotto il peso della contraddizione oggettiva fra adesione all’Eurozona e possibilità di rilanciare effettivamente la Grecia, sottraendola al suo destino di colonia tedesca.

Ma anche qui sono le dinamiche interne alla Germania a fare da ostacolo: nonostante il rischio geopolitico di una rottura, chi ha mentito, scaricando sui greci tutte le responsabilità, non può ora permettersi di venir loro incontro, senza compromettersi sul fronte politico interno. Le menzogne nazionalistiche incrociate di Nord e Sud ostacolano qualsiasi prospettiva strategica e qualsiasi esito cooperativo, rendendo sempre più probabile che una cosa nata male come l’euro finisca ancora peggio.

Alberto Bagnai
Il Fatto Quotidiano, 28 giugno 2015

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