Ci siamo lasciati il 16 giugno dicendoci che la Brexit, comunque andasse, sarebbe stata un insuccesso per Bruxelles. Minacciando di ritorsioni uno stato che intendeva avvalersi del diritto di recesso previsto dal Trattato di Lisbona, i vertici delle istituzioni europee confessavano vuoi la loro intenzione di non far rispettare un patto sottoscritto, del quale essi sono garanti, vuoi che questo patto contiene clausole inapplicabili, perché destabilizzanti, e quindi va ripensato. Quanto ai nostri amici tedeschi, primo fra tutti il ministro Schäuble, si sono messi come al solito in un vicolo cieco: se attuano le loro minacce danneggiano sopratutto la loro economia, la più legata a quella britannica, e fanno capire agli altri membri che l’UE più che a un club somiglia a un lager; se non le attuano diventano poco credibili. Niccolò Machiavelli, o John Nash, che in tempi diversi hanno studiato la teoria dei giochi strategici, si rivoltano nelle rispettive tombe. Ora l’evento si è verificato.
Ricordiamo intanto che quello svolto è un referendum consultivo, al quale dovrebbe seguire una domanda formale di recesso da parte del governo britannico. Quando e se questa sarà inoltrata, si avvierà la procedura, lunga due anni, nel corso dei quali avremo tempo di tornare sui tanti dettagli tecnici. Intanto, però, una cosa è certa: la prima vittima della Brexit rischia di essere la credibilità degli economisti. I due mesi precedenti al referendum hanno visto un florilegio di appelli accorati da parte di colleghi che unanimi prevedevano catastrofi in caso di Brexit. Ma qual è la base fattuale di queste profezie? All’ultimo seminario di Villa Mondragone, organizzato dalla Fondazione Economia Tor Vergata, Jürgen Matthes, dell’Istituto per la ricerca economica di Colonia, ha presentato uno studio sugli effetti della Brexit che considera tutte le simulazioni disponibili. La conclusione è che secondo i modelli economici ortodossi il costo della Brexit in media sarebbe relativamente contenuto, sull’ordine del 2% del Pil su una decina d’anni: la metà di quello che il Regno Unito perse nel solo 2009, recuperando la perdita in tre anni. Ma allora, perché gli economisti ortodossi sono così catastrofisti? Credo che le risposte possano essere solo due: o non credono ai loro stessi modelli (ma allora, come con i Trattati, basterebbe migliorarli), o qualcuno suggerisce loro di non crederci.
In effetti, che fra i circoli finanziari, visibilmente i più preoccupati dalla Brexit, e quelli accademici possano esistere delle “sinergie” non appare un’ipotesi astrusa, e in linea di principio non ci sarebbe nulla di male, anzi. Una sana interazione fra il mondo della teoria e quello della prassi può senz’altro rinvigorire entrambi. Questo purché si conservi autonomia di giudizio. Sul «Financial Times» del 15 giugno Chris Giles ha notato che se l’abbandono dell’UE si dovesse dimostrare vantaggioso, gli economisti subirebbero uno smacco in confronto al quale la loro incapacità di prevedere la crisi del 2008 sembrerebbe una quisquilia. Sarebbe una grave perdita, in un momento nel quale occorre prendere decisioni cruciali, su una base possibilmente razionale. Permettetemi però di non fare di ogni erba un fascio. Gli economisti eterodossi la crisi del 2008 l’avevano prevista e come! Hanno fallito, e si accingono a fallire nuovamente, gli autoproclamati ortodossi: sì, proprio quelli che non credono ai loro modelli. E almeno su questa sfiducia possiamo certamente concordare con loro.
Alberto Bagnai
Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2016