La finta eurofesta della Lettonia

Alberto Bagnai 3 Gennaio 2014

Enrico Letta ha accolto trionfalmente su Twitter l’ingresso della Lettonia nell’eurozona. Chi si contenta gode, verrebbe da dire. Non per fare il guastafeste, né per mancare di rispetto alla Lettonia (2 milioni di abitanti, un Pil pari allo 0.2% del totale dell’Unione Europea), ma va ricordato che Polonia e Repubblica Ceca (che insieme hanno 50 milioni di abitanti, ed esprimono più del 4% del Pil dell’Unione) pare non abbiano la benché minima intenzione di accedere a loro volta. Lo prova il fatto che non hanno nemmeno aderito all’ERM II (Exchange Rate Mechanism II), cioè all’impegno di mantenere il cambio delle proprie valute nazionali entro bande di oscillazioni ristrette con l’euro (condizione necessaria per poter entrare nella moneta unica).

Non solo: a seguito dello shock provocato dalla crisi finanziaria mondiale, Polonia e Repubblica Ceca hanno reagito come economia vuole, cioè svalutando il proprio cambio. La Polonia lo ha fatto subito dopo il crollo della Lehman Brothers, svalutando di circa il 25% in termini effettivi fra settembre 2008 e agosto 2009; la Repubblica Ceca lo ha fatto a novembre scorso, svalutando di circa il 6% (ma non mi pare che qui se ne sia parlato). Inutile dire che non c’è stata nessuna fiammata di inflazione in Polonia, dove l’inflazione è anzi scesa dal 4.4% (nel 2008) al 3.5% (nel 2009). Viceversa, dal 2009 al 2012 in Polonia la crescita media è stata del 3%. Constatata la propria deludente crescita del -1.4% sullo stesso periodo, alla fine la Repubblica Ceca si è convinta a svalutare anche lei, rinviando di fatto di almeno altri due anni ogni possibile velleità di adesione alla trappola dell’euro.

E la Lettonia? Be’, dal 2009 al 2012 non è che le sia andata molto bene. La sua crescita media fra 2009 e 2012 è stata del -2% e il motivo è chiaro: la Lettonia era nell’ERM II fin dal 2005. Con il lat ancorato all’euro, alla Lettonia non rimaneva che una strada, quella della svalutazione interna, la svalutazione dei salari. Fra il 2008 e il 2010 i salari medi sono diminuiti di circa il 7%, per poi stabilizzarsi. Per far accettare un simile taglio delle retribuzioni, la disoccupazione, va da sé, è dovuta aumentare dal 7% al 18%.

Non solo: la popolazione è diminuita di circa il 10%. Disoccupazione a due cifre ed esodo: i due effetti collaterali della svalutazione interna, che anche noi, in Italia, stiamo sperimentando. A differenza dell’Italia, però, la Lettonia, all’inizio della crisi, si trovava in una posizione fiscale molto più vantaggiosa. Il suo rapporto debito pubblico/Pil nel 2007 era pari ad appena il 7%. Ora è del 38%: sempre molto sotto la soglia di attenzione (60%), ma si conferma il principio che la svalutazione interna non fa bene ai conti pubblici, perché comunque distrugge posti di lavoro, e quindi reddito, rendendo più oneroso il carico del debito pubblico e privato.

Altro dettaglio non trascurabile: anche la Lettonia, come praticamente tutti i paesi periferici dell’Eurozona, ha sperimentato una forte crescita del proprio debito estero netto a partire dal proprio ingresso nell’ERM II. In altre parole, a partire da quando il rischio di cambio è stato attenuato dall’entrata in un meccanismo di cambi fissi, i creditori esteri hanno cominciato a prestare con larghezza. La posizione netta sull’estero della Lettonia è peggiorata di 30 punti di Pil in quattro anni (arrivando a -86% del Pil nel 2009) e la successiva svalutazione “interna” non ha migliorato molto le cose (mentre l’entrata nell’euro implica che comunque i rilevanti debiti contratti con l’estero andranno ora rimborsati per lo più in una valuta relativamente forte).

Concludendo: l’entusiasmo del nostro premier non stupisce, anche se, cifre alla mano, risulta totalmente immotivato, sia per la scarsa rilevanza quantitativa del paese, che per la situazione tutt’altro che rosea dei suoi fondamentali. Non stupisce nemmeno lo scarso entusiasmo dei lettoni, che però è ben motivato. Secondo l’ultimo sondaggio dell’Eurobarometro, solo il 39% dei lettoni (o meglio, di quel che ne rimane) sono oggi favorevoli all’euro. Lo credo bene! In qualche modo l’hanno sperimentato prima di entrarci, essendo ingabbiati nell’ERM II quando la crisi statunitense colpiva le economie europee, e le conseguenze le stanno ancora patendo (la disoccupazione è prevista a due cifre almeno fino al 2015).

Bisognerebbe allora parlare del rapporto fra euro e democrazia: ma forse è meglio non amareggiarci troppo, in quel poco che ci rimane delle feste natalizie.

Alberto Bagnai
Il Fatto Quotidiano, 3 gennaio 2014

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