La riforma fiscale annunciata da Trump è una scossa, ma l’incognita è il deficit

Giorgio La Malfa 28 Aprile 2017

In linea generale, ridurre le tasse è una buona idea, specialmente se lo si fa aumentando il deficit. Questo, infatti, significa immettere un maggiore potere di acquisto nel sistema economico, stimolare una maggiore spesa e quindi un maggior livello dell’attività produttiva. Da questo punto di vista il piano di riduzione delle imposte annunciato da Trump merita un’attenta considerazione. Nel caso specifico, però, vi sono alcuni pesanti interrogativi. Il primo è che non è affatto detto, come invece dichiarano le fonti americane, che la riduzione del prelievo fiscale darà luogo ad un tale aumento del gettito fiscale da far sì che nei prossimi anni il deficit scenda, come sembra sperare l’Amministrazione americana.

Perchè questo avvenga la reattività del livello dell’attività produttiva allo stimolo prodotto dal taglio fiscale deve essere molto alta. Sono gli Stati Uniti in questa condizione? Hanno veramente bisogno di una spinta così forte? Ed hanno uno spazio per aumentare di molto il livello dell’attività produttiva? Guardando i dati non lo si direbbe. Le statistiche dicono che Trump ha ereditato dall’amministrazione Obama una disoccupazione inferiore al 5 per cento. Vuol dire che di fatto l’economia americana già va al massimo o vicino al massimo. Un’immissione così forte di potere di acquisto rischia di surriscaldare l’economia e di tradursi essenzialmente in un livello di prezzi più alto all’interno e in maggiori importazioni dall’estero e quindi in un aumento del disavanzo della bilancia dei pagamenti. Ed anche di aggravare il deficit pubblico che è già molto alto. Un ulteriore interrogativo riguarda la scelta delle imposte da ridurre. Non tutte le imposte sono eguali nei loro effetti sul livello dell’attività produttiva e sopratutto sulla distribuzione dei redditi. Trump ha deciso di concentrare la riduzione del prelievo fiscale sulle imposte pagate dalle imprese, riducendo l’aliquota dal 35 al 15 per cento. La giustificazione è l’intenzione di stimolare un aumento degli investimenti negli Stati Uniti, che è uno degli impegni presi da Trump nella sua campagna elettorale. Ma, in realtà, non c’è alcun effetto automatico che garantisca che la riduzione delle imposte sui redditi delle imprese si traduca in maggiori investimenti.

Una parte dei maggiori profitti potrebbe andare direttamente a rifugiati all’estero alla ricerca di impieghi con rendimenti più elevati di quelli correnti negli Stati Uniti. Quindi essa potrebbe tradursi in maggiori esportazioni di capitali. In parte, inoltre, i maggiori profitti delle imprese potrebbero andare, invece che a rafforzare gli investimenti, ad alimentare i consumi dei ceti più abbienti aggravando il problema della cattiva distribuzione del reddito negli Stati Uniti, dove le classi medie hanno subito in questi anni una riduzione molto marcata dei loro redditi e peggiorando ulteriormente la bilancia commerciale americana. Paradossalmente, Trump, portato al successo dal voto di una classe media impoverita, rischia di peggiorarne la situazione. Da questo punto di vista, invece che una riduzione delle imposte sui profitti, avrebbe potuto essere più efficace una misura di sollievo fiscale sugli investimenti, in forma per esempio di facilitazioni fiscali sugli ammortamenti. Essa avrebbe infatti collegato la riduzione fiscale all’aumento degli investimenti. Ma ovviamente gli effetti «politici» dell’annuncio sarebbero stati molto minori.

Il vero rischio è quindi che la riduzione delle imposte che Trump si appresta a varare si traduca in un più alto deficit di bilancio all’interno e in un più alto disavanzo della bilancia dei pagamenti all’estero, che sono i due problemi che l’America da anni non riesce ad affrontare e che determinano uno stato costante di fibrillazione nel sistema finanziario internazionale. Sono quindi legittimi dei dubbi sull’opportunità negli Stati Uniti della politica annunciata da Trump. Vi sono, invece, situazioni in cui una politica alla Trump sarebbe assolutamente indispensabile. Il caso in questione è quello dell’Europa e in particolare dell’Eurozona, dove la disoccupazione è ancora vicina al 10 per cento e dove la crescita del reddito è compresa fra l’1 e il 2 per cento. Vi sarebbe quindi lo spazio per una maggiore espansione e l’espansione porterebbe degli introiti fiscali tali da ridurre il deficit. In sostanza, in Europa la politica di Trump sarebbe molto utile. Se l’Europa decidesse di abbandonare la filosofia del pareggio di bilancio come priorità unica della propria politica economica, questo avrebbe sicuramente un effetto positivo. Per di più, l’Eurozona nel suo complesso non ha né un elevato deficit di bilancio, né un passivo della bilancia dei pagamenti. Gli effetti sarebbero quindi positivi.

Così come stanno le cose, rischiamo di avere pochi stimoli dove ve ne sarebbe maggior bisogno e troppi stimoli dove invece c’è minor bisogno e minor spazio. Così, in sostanza, gli squilibri mondiali rischiano di crescere invece di diminuire.

Giorgio La Malfa
Il Mattino, 27 aprile 2017

 

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