Caro direttore, sarebbe da ingenui sottovalutare il senso e la portata delle parole dell’autorevole economista tedesco, Clemens Fuest, nell’intervista a Federico Fubini (Corriere, 16 dicembre) che in Germania «le preoccupazioni per la stabilità dell’euro sono molto presenti» e che «sembra preferibile che l’Italia lasci l’euro». Esse rappresentano l’opinione di vasti e crescenti settori della classe dirigente tedesca.
La risposta politica deve essere netta: è semmai la Germania che deve lasciare l’euro, se non è disposta a modificarlo in modo che possa funzionare non solo nel loro interesse, ma nell’interesse di tutti i Paesi che ne fanno parte. In realtà, si comincia ormai a capire che per l’Europa la moneta unica, così come è stata fatta, è un errore. Fino a pochi anni fa difendere l’euro era un dogma. Chiunque ne enumerava i punti di debolezza era additato come un traditore della fede europeista. Solo dopo anni di depressione comincia a emergere che, mentre i sognatori avevano considerato la moneta unica come un passo verso la casa comune europea immaginata dai padri fondatori, il modo in cui essa è stata definita non ha nulla a che fare con quel disegno politico. In effetti, le regole adottate sotto l’influenza dominante della Germania hanno fatto della moneta unica un puro e semplice accordo di cambi fissi che impone solo ai Paesi in deficit l’onere dell’aggiustamento e non chiede alcun impegno di solidarietà ai Paesi in surplus.
La Germania da questo assetto ha tratto un duplice enorme vantaggio. Da un lato la nostra presenza ha evitato la rivalutazione della moneta tedesca e ne ha tutelato la competitività, dall’altro il cambio fisso ha distrutto la nostra competitività che invece fra il 1970 e il 1995 aveva consentito la crescita di quelle medie imprese di successo che ancora ci permettono di sopravvivere. L’Italia ha pagato un prezzo enorme alla moneta unica. Ha sacrificato il 10% del prodotto pro capite fra il 2008 e oggi; nel 1999, alla partenza della moneta unica, il nostro reddito pro capite era del 20% superiore alla media dell’area dell’euro; oggi è del 20% sotto la media; la disoccupazione è al 12%, in Germania al 4%. La risposta non può essere lo stanco ritornello di completare l’Unione monetaria per correggere questa asimmetria. La Germania non ha interesse a farlo e non lo farà. Prendendo spunto proprio da Fuest e da altri economisti tedeschi, il governo italiano dovrebbe sollecitare, con tutta la riservatezza del caso, un chiarimento alla Germania e chiederle di prendere lei l’iniziativa di un ripensamento della moneta unica. Il ripensamento può prendere due strade.
La prima è che la Germania lasci l’euro, ricostituendo il marco, lasciandolo liberamente fluttuare verso l’alto. Così non avrà più la preoccupazione di doversi occupare un giorno dei debiti dell’Italia o della Grecia. Ma noi avremo la possibilità di ricostruire la nostra base industriale. L’altra via è di sostituire l’attuale meccanismo della moneta unica con un meccanismo di tassi di cambio fissi ma aggiustabili con una Bce e la Bei ridimensionate rispetto ai loro attuali compiti per assumere le caratteristiche che hanno i due istituti di Bretton Woods, Fmi e Banca Mondiale; con l’euro che funga da moneta di riferimento delle monete nazionali (come sarebbero dovuti essere i diritti speciali di prelievo), e la Bei che agisca per favorire la convergenza fra i Paesi europei. Altrimenti, se la Germania rifiuta ambedue le strade, la sola strada possibile è che i Paesi membri scelgano di condurre politiche monetarie e fiscali del tutto autonome e aspettino gli eventi. In altre parole, gli interrogativi di Fuest debbono essere rivolti al governo tedesco, non certo all’Italia che ha sacrificato assai più di quanto altri Paesi europei avrebbero accettato di sacrificare a una costruzione sbagliata e ingiusta.
Giorgio La Malfa
Paolo Savona
Il Corriere della Sera, 28 dicembre 2016