Mi è stato chiesto di occuparmi di Brexit in 5000 caratteri. Compito arduo, non perché ci sia molto da dire: fatto salvo il legittimo desiderio di certi colleghi di dare i numeri, le cose da dire credo siano poche e semplici. Sono però dolorose per chi si ostini a credere nella democrazia. In effetti quello economico, nel caso della Brexit, è veramente l’ultimo dei problemi. Questo non perché l’eventuale Brexit (secondo me improbabile) non abbia motivazioni e non avrebbe conseguenze anche di ordine economico, quanto perché il nodo fondamentale è politico, e in questo ambito i danni sono già stati fatti. Parto dall’osservazione più semplice: le stesse istituzioni, in qualche caso addirittura le stesse persone, che ci stanno prospettando sciagure inenarrabili in caso di uscita del Regno Unito dalla Ue, sono quelle che ci hanno promesso prosperità e pace grazie alla nostra adesione al progetto europeo. Un esempio per tutti: Donald Tusk, secondo cui la Brexit sarebbe “la fine della civiltà politica europea”.
Siamo di fronte alla forma più esasperata del fenomeno descritto da Giandomenico Majone, professore emerito di Scienze politiche all’Istituto Universitario Europeo, nel suo libro Rethinking the union of Europe: il passaggio dalla cultura politica dell’ottimismo totale, quella che ha portato a negare nei Trattati l’eventualità di una crisi, al suo contrario, la cultura della politica del catastrofismo totale, quella che, al verificarsi di una crisi, paralizza l’azione dei governanti, scaricando i costi sui cittadini. Invertendone la polarità (da positiva a negativa) la demagogia non cambia: la prima vittima della Brexit è la credibilità delle autorità europee, così caricaturali nel loro profetizzare sventure, che perfino Alesina e Giavazzi hanno sentito l’esigenza di distanziarsi!
Ma non finisce qui. Come saprete, l’Unione europea si propone esplicitamente di costituire una unione monetaria fra tutti i paesi membri (art.2, comma 4 del Trattato di Lisbona). Saprete anche che mentre il Trattato di Maastricht non prevede l’eventualità di uscita dall’unione monetaria, il Trattato di Lisbona prevede, all’art.50, il recesso di un paese membro dell’Unione europea. Un aborto giuridico e politico, da cui è però immune il Regno Unito, che non ha firmato il Trattato di Maastricht (lo evidenzio per quelli che parlano di uscita dell’“Inghilterra” dall’euro).
Il punto è un altro: prendiamo per buona l’ipotesi che l’uscita di un paese dall’Unione causi sconquassi epocali. Se così fosse, dovremmo concludere che il Trattato di Lisbona, in quanto prevede un’eventualità tanto destabilizzante, è il parto di una combriccola di incoscienti e andrebbe riscritto. Facciamo ora l’ipotesi contraria, più ragionevole: quella che dopo la Brexit il sole continuerebbe a sorgere, gli inglesi a comprare BMW, e i vassalli della Merkel a bere whisky (non sempre con moderazione, com’è noto). In questo caso staremmo assistendo allo spettacolo incivile e inquietante di istituzioni che, chiamate dal loro ruolo a garantire il rispetto dei Trattati, minacciano invece ritorsioni verso un paese perché questo intende esercitare un diritto che i Trattati sanciscono. Dalla Brexit Bruxelles esce comunque distrutta: o ha scritto un Trattato inapplicabile (vedi alla voce “ottimismo totale”) o si rifiuta di applicarlo (celando le sue smanie totalitarie dietro la cortina fumogena del “catastrofismo totale”). Ripeto: o Bruxelles ha sbagliato scrivendo male il Trattato, o sbaglia nell’ostacolarne l’applicazione. Tertium non datur. La seconda vittima della Brexit è quindi la credibilità del progetto cosiddetto “europeo”. Quest’ultimo si qualifica una volta di più come profondamente eversivo dell’ordine costituito, un insulto allo stato di diritto e alle norme basilari dell’ordinamento internazionale, a partire dalla più ovvia e universalmente nota: pacta sunt servanda.
Qualcuno intuisce quale sia il vero nodo politico: consentire la Brexit creerebbe un precedente. Ma perché questo sarebbe tanto pericoloso? Perché quella di permettere di andarsene a chi lo desideri è solo l’ultima fra le tante promesse che Bruxelles ha fatto senza avere intenzione di mantenerle. Non ci ha dato “progresso economico e sociale”, non ci ha dato “un elevato livello di occupazione”, e non intende nemmeno permetterci di cercarli autonomamente. Le tensioni secessioniste sono quindi inevitabili. Se l’andazzo non cambierà finirà male per noi e peggio per Donald (Tusk) da Danzica, cui è già riservato un posticino accanto a Guido da Montefeltro: se lo è meritato interpretando l’art. 50 del Trattato di Lisbona come una “lunga promessa con l’attender corto”.
Questo suo comportamento, non la Brexit, sta compromettendo la civiltà politica occidentale. Tanto vi dovevo e (contare per credere) l’ho contenuto in esattamente 5000 caratteri, perché pacta sunt servanda. Un esempio vale più di due trattati, sopratutto quando nessuno vuole rispettarli!
Alberto Bagnai
Il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2016