Una conferma ed una sorpresa emergono dalle prime elaborazioni sui dati di bilancio delle imprese industriali del Mezzogiorno che la Fondazione Ugo la Malfa, con la collaborazione dell’Ufficio studi di Mediobanca, raccoglie e pubblica annualmente. Vale la pena darne tempestivamente un’anticipazione. Infatti, una riflessione attenta su queste risultanze potrebbe finalmente aiutare il governo e le amministrazioni regionali del Mezzogiorno a delineare una buona politica per favorire lo sviluppo economico di cui il Mezzogiorno paga l’assenza ormai da troppi anni. La conferma e la sorpresa sono di segno diverso: la conferma è negativa, ma la sorpresa invece è positiva e contraddice uno dei luoghi comuni più consueti quando si parla del Sud.
Il dato negativo è che a partire dal 2008, quando è iniziata la crisi mondiale che ha investito brutalmente anche l’Italia, la base industriale del Mezzogiorno, che già era ristretta, si è progressivamente contratta. In fondo la fine delle speranze di crescita del Mezzogiorno ha coinciso con la crisi dell’intervento pubblico, con la frettolosa eliminazione della Cassa del Mezzogiorno, con la necessità di liquidare le partecipazioni statali. Caduta la grande impresa pubblica, toccava alla media impresa prenderne il posto. Ma così non è stato. La Fondazione Ugo La Malfa e Mediobanca fanno annualmente il censimento completo delle medie imprese (quelle che hanno da 50 a 500 dipendenti) che hanno sede nel Mezzogiorno e li confrontano con i dati relativi al resto del Paese.
La situazione è questa. Nel 2008 vi erano in Italia 4.102 imprese medie, di queste 360 erano localizzate nel Mezzogiorno. La crisi ha inciso pesantemente su questo che è il settore più vitale dell’industria italiana. A fine 2.014 da 4.102 le imprese medie in Italia si sono ridotte a 3.334, ma nel Sud il numero è sceso ancora di più, da 360 a 263. Nel 2008 nel Sud vi era il 9% del totale delle medie imprese. Nel 2014 esse sono solo il 7,8% e tendono a diminuire di numero anno dopo anno. Sostanzialmente esse si concentrano in tre regioni, la Campania, dove tra l’altro il numero delle medie imprese è cresciuto fra il 2013 e il 2014, la Puglia e l’Abruzzo. Nelle altre regioni meridionali c’è poco o niente. L’occupazione in queste imprese, in totale, non supera 40.000 persone, ed è in calo progressivo anno dopo anno. Se a questi lavoratori industriali, si aggiungono quelli che lavorano in impianti e imprese nel Mezzogiorno con oltre 5.000 dipendenti, che pure sono rilevati nel Rapporto, si ha una stima approssimativa dell’occupazione che possiamo definire regolare. Il totale è inferiore a 150.000 persone. Probabilmente si tratta del numero di dipendenti dell’industria di una singola provincia della Lombardia o del Veneto.
Come si può pensare di assicurare al Mezzogiorno, ed ai suoi giovani, un futuro positivo con questi numeri? Questi sono i dati negativi e le conferme di una tendenza molto preoccupante. Ma poi emerge un dato positivo largamente inaspettato, sul quale è giusto attirare l’attenzione. Il dato è questo: dai bilanci delle imprese del Mezzogiorno, confrontati con quelli delle imprese del resto del Paese, emerge che i risultati economici delle imprese meridionali, specialmente delle imprese medio e medio-grandi, sono molto simili a quelle – e in molti casi migliori – delle imprese dello stesso tipo del resto del Paese. Eguali o in qualche caso migliori. Lo si vedrà dal Rapporto quando esso sarà reso pubblico. Qual è l’importanza di questa “scoperta”? È che essa fa venir meno uno dei più comuni fra i luoghi comuni sul Mezzogiorno e sulle ragioni della difficoltà del suo sviluppo.
Si è detto spesso, e si ripete, che la produttività delle imprese meridionali è troppo bassa e che le carenze esterne, sopratutto nel campo delle infrastrutture, aggravano ulteriormente il divario di redditività. Ma in realtà i dati raccolti quest’anno mostrano che non è così. Le imprese del Mezzogiorno sono poche, anzi pochissime, ma sono pienamente competitive rispetto al resto del Paese. La conclusione più importante che segue da questa costatazione è che non è vero che non si possa fare impresa nel Mezzogiorno. Può essere difficile far nascere nuove imprese e farle crescere, ma quando si consolidano le imprese meridionali sono altrettanto produttive e talora più produttive delle imprese analoghe del resto del Paese. Questo porta a una considerazione propositiva: essa è che si possono e si devono concentrare gli sforzi nel settore industriale. Poiché il problema è che non sono molti e non tende a crescere, naturalmente, il numero degli imprenditori; bisogna riuscire ad “importare” l’imprenditoria dal resto del Paese o da fuori dell’Italia.
Se si individua questo come il problema cruciale della politica per il Mezzogiorno, si può mettere ordine nelle politiche di sostegno di questi anni, il cui difetto principale è di essere state totalmente casuali nelle loro direzioni di fondo. Ed è qui che il governo e le regioni meridionali debbono riflettere seriamente. Bisogna creare condizioni di accoglienza di prim’ordine per le medie imprese che, venendo dall’esterno, decidano di collocarsi nel Mezzogiorno. Condizioni assolutamente di prim’ordine: infrastrutture, collegamenti ferroviari, viari e marittimi, la disponibilità di telecomunicazioni adeguate, il collegamento con l’Università e sopratutto la sicurezza e la garanzia della non interferenza da parte delle forze della criminalità organizzata.
Tutte queste condizioni richiedono una presenza autorevole e massiccia dello Stato. Esse non possono essere garantite contemporaneamente su tutto il territorio del Mezzogiorno. Bisogna immaginare una rivisitazione moderna della vecchia idea delle aree industriali di sviluppo. È necessario individuarne una per ciascuna regione o al massimo due nelle regioni più grandi. E va concentrato in quelle zone il massimo dello sforzo di presenza positiva dello Stato e delle istituzioni. Nel cambiamento politico seguito al referendum, si è tornati ad istituire un ministero per il Mezzogiorno. Era ora! Anche se è abbastanza incomprensibile che a questo ministero sia stato sottratto il coordinamento del Cipe per affidarlo al ministro senza portafoglio dello sport! Che vi sia un ministro per il Mezzogiorno è un passo in avanti molto importante. E noi confidiamo che il nuovo ministro esaminerà con attenzione le risultanze del Rapporto della Fondazione di quest’anno, nei suoi dati negativi, ma sopratutto nelle speranze che possono derivare da alcuni dei dati raccolti. Forse si potrebbe respirare un po’ di aria nuova sulla strategia per il Mezzogiorno.
Giorgio La Malfa
Il Mattino, 18 gennaio 2017