Le contraddizioni insanabili dell’euro

Alberto Bagnai 30 Aprile 2014

Impazzano sui social media sciami di dilettanti che si appassionano ai tecnicismi sulla sostenibilità o meno dell’euro. Un economista trova poco interesse in questo dibattito, per il semplice motivo che per la scienza economica l’euro è nato morto. Del resto anche oggi, se pure a posteriori, gli economisti più in vista sul mercato locale, come Zingales, placidamente confermano che esso andrà smantellato. Per capire quanto sia fallimentare il progetto eurista non occorre alcuna preparazione scientifica particolare: un minimo di logica basta a farne risaltare le insanabili contraddizioni.

L’idea che paesi diversi potessero permettersi una stessa moneta si basava sull’assunto che la moneta unica, facilitando la circolazione dei capitali, avrebbe convogliato le risorse finanziarie nelle regioni dell’Eurozona dove esse fossero più utili, con due benefici: per i paesi più arretrati, quello di finanziare a buon mercato il proprio sviluppo, e per il sistema nel complesso quello di non incorrere più in crisi finanziarie come quella del 1992, visto che i mercati avrebbero finanziato solo chi se lo meritava (così diceva Emerson in One market, one money).

Ci vuole molta fiducia nel mercato finanziario per pensare che esso possa da solo, e senza un’autorità di controllo sovranazionale, risolvere tutti i problemi! Il mercato finanziario ha fallito, come ha certificato il vicepresidente della Bce (Atene, 23 maggio 2013), ma al di là del fallimento, questo approccio presentava una contraddizione che nessuno ha notato: se è vero che i mercati finanziari sono infallibili (come pensavano gli eurocrati), perché mai il progetto europeo dovrebbe basarsi sull’abolizione di uno di essi, quello valutario? Se si crede nel mercato, perché non credere che esso sappia prezzare in modo corretto le valute nazionali, dando agli investitori esteri segnali preziosi per allocare le proprie risorse?

Qualcuno se la cava dicendo: “Be’, però se un paese è messo in difficoltà da una valuta troppo forte, viene incentivato a fare le riforme necessarie”. L’integrazione finanziaria sarebbe quindi un mezzo per conseguire il fine della disciplina finanziaria. Ma anche questa è una fesseria: perché mai gli operatori dovrebbero ricorrere di meno al debito, se i capitali circolano meglio, e quindi indebitarsi è più facile? È esattamente il contrario: facilitando il finanziamento degli squilibri, la moneta unica allenta il vincolo di bilancio dei governi e consente di rinviare le riforme. Lo attesta Fernandez-Villaverde dell’Università della Pennsylvania sul prestigioso «Journal of Economic Perspectives»: è stata la “credibilità” dell’euro a consentire alla Grecia di indebitarsi oltre ogni logica economica.

Intervengono allora gli esperti di politica, e il discorso si fa ancor più interessante. Consiglio la lettura del saggio di Roberto Castaldi La moneta unica e l’unione politica (scaricabile da Internet). Esso conferma come il disegno definito criminale da Zingales (guidare il processo di integrazione economica a colpi di crisi), fosse stato lucidamente teorizzato da padri nobili quali Altiero Spinelli e soprattutto Mario Albertini. Per quest’ultimo, ricorda Castaldi “le crisi costituivano opportunità per lo sviluppo di una ‘iniziativa’ federalista”, poiché aprivano “una finestra di opportunità” per la cessione di sovranità nazionale, nella piena consapevolezza “che un’unione monetaria non possa sopravvivere nel lungo periodo senza l’unione politica” e quindi “che la creazione della moneta unica potesse generare una contraddizione tra una moneta europea in assenza di un governo europeo tale da aprire la strada ad un processo costituente europeo”.

Nulla di nuovo: Mario Monti ce lo ricordava tre anni fa al convegno “Finanza: comportamenti, regole, istituzioni” organizzato dalla LUISS.

Ma anche questo ragionamento è contraddittorio. Se lo scopo è quello di costruire una “compiuta democrazia europea”, perché invece di interpellare i cittadini li si mette in una tonnara monetaria, affinché spaventati vadano nella direzione giusta? Possiamo chiamare democratico questo modus operandi? E soprattutto: quale obiettivo può mai essere così nobile da essere perseguito accettando coscientemente il rischio che ci siano vittime? Perché la crisi economica, ormai è chiaro, fa comunque delle vittime. Stupisce la serenità con la quale Albertini, Castaldi, Monti, accettano l’eventualità di questi “danni collaterali”. È il cinismo degli ottimati, per i quali la vita altrui ha poca rilevanza, perché si sanno protetti per censo da quella “durezza del vivere” alla quale il compianto Padoa Schioppa auspicava che gli europei fossero riavvicinati, onde riaversi dalla mollezza alla quale lo stato sociale li aveva avvezzi.

Affidarsi al mercato inibendo quello più importante per valutare un sistema paese (il mercato valutario), incentivare la disciplina finanziaria adottando regole che favoriscono l’indebitamento (l’integrazione finanziaria), perseguire la democrazia col paternalismo (la scelta di convogliare il gregge col bastone della crisi verso l’obiettivo deciso dai pastori): queste sono le insanabili contraddizioni dell’euro, e su queste sarebbe opportuno riflettere, lasciando il folclore del “faremo la spesa con la carriola” ai commentatori prezzolati, già pronti a virare di bordo con disinvoltura, come fecero nel 1992, passando dal terrorismo al “la svalutazione ci ha fatto bene!” nel breve volgere di pochi mesi. I nomi, se interessano, sono su Internet (e sono gli stessi di oggi).

Alberto Bagnai
Il Fatto Quotidiano, 30 aprile 2014

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