Il fenomeno della cessione all’estero di aziende simbolo del Made in Italy sta attirando un’attenzione sempre più viva e piuttosto schizofrenica. Da un lato gli ultimi governi hanno insistito sul fatto che l’Italia non era abbastanza “attraente” per gli investitori esteri: il programma “Destinazione Italia”, proposto dal governo Letta nell’autunno scorso, voleva proprio rimediare a questa situazione. D’altro canto, commentatori quali l’on. Prodi hanno evidenziato come le aziende passate in mano estera siano ormai così tante da compromettere lo stesso rilancio della nostra economia, perché “molta parte del loro valore aggiunto si dirige verso le imprese straniere che hanno acquistato le nostre aziende e ne incassano perciò i margini commerciali e i profitti” (Il Messaggero, 17 agosto 2013).
Ma come stanno le cose? “Siamo brutti, nessuno ci vuole”, oppure: “Siamo finiti, ci hanno comprato tutto”? Questi due messaggi sono incoerenti: se nessuno ci vuole, perché tutti ci pigliano? (Al punto che in cinque anni 830 marchi italiani sono passati in mano estera, come ricordava ieri questo quotidiano). E se facciamo tanti progetti per attirare capitali esteri, perché poi ci lamentiamo quando arrivano? Nel discorso qualcosa non torna, e può essere utile fare un po’ di chiarezza.
In bilancia dei pagamenti gli investimenti fatti a scopo di controllo di un’attività produttiva estera si chiamano “investimenti diretti”, e possono essere in entrata (un’azienda francese “compra” un’azienda italiana) o in uscita (un’azienda italiana “compra” un’azienda francese). In Italia, come in molte altre economie mature, il flusso in uscita prevale su quello in entrata: i nostri investimenti all’estero in media superano quelli esteri in Italia di circa 2 punti di Pil (un ordine di grandezza simile a quello della Germania).
Questa media nasconde dinamiche interessanti. Ad esempio, gli investimenti all’estero degli italiani, che nel 2008 erano pari a 45 miliardi di euro, con la crisi sono scesi a circa 25 miliardi l’anno. Viceversa, quelli esteri in Italia sono passati da -7 nel 2008 (quando gli imprenditori esteri si ritirarono dai mercati italiani, avendo sufficienti problemi in casa propria), a circa 14 miliardi l’anno nel periodo successivo. Noi compriamo sempre meno aziende all’estero (esportiamo meno capitali), ma dall’estero continuano a comprare nostre aziende (cioè noi continuiamo a importare capitali).
Queste dinamiche si spiegano con due conseguenze della crisi, entrambe preoccupanti. Da un lato, il risparmio netto delle famiglie è passato da più del 10% del loro reddito disponibile prima della crisi a circa il 3% nel 2012. È la mancata crescita di risparmio interno che spiega il bisogno di ricorrere al risparmio estero. D’altra parte, la carenza di domanda nell’Eurozona, e in particolare in Italia, mette in crescente difficoltà molte aziende, i cui proprietari preferiscono cedere marchi e know-how all’estero.
Allora siamo finiti? I dati non dicono nemmeno questo. Il saldo fra i profitti incassati sui nostri investimenti diretti esteri, e quelli versati agli investitori esteri, rimane positivo, intorno agli 8 miliardi l’anno, anche in conseguenza del fatto che il totale dei nostri investimenti all’estero (402 miliardi, alla fine del 2011) è maggiore del totale degli investimenti esteri in Italia (262 miliardi, alla stessa data). Se arrivasse un governo che invece di porsi il problema di rendere l’Italia “attraente”, si ponesse quello di rilanciare l’economia, nulla dice che il valore aggiunto creato si riverserebbero in massima parte all’estero.
Forse chi continua a colpevolizzare il nostro paese perché non attraente se i capitali non arrivano, salvo liquidarlo come spacciato se invece arrivano, vuole insinuare che la crisi ce la meritiamo, e che recuperare spazi di autonomia nella nostra politica economica è ormai inutile. Le cose non stanno proprio così. Certo, nella crisi incidono i nostri problemi strutturali, da affrontare quando avremo le risorse per farlo, ma nessuno ormai si nasconde il fatto che sono le regole europee a ostacolare la ripresa.
L’Eurozona è l’unica area del mondo il cui Pil sia rimasto, nel 2013, inferiore al valore del 2008. L’Italia ha ancora risorse per potersi riprendere, ma per poterle sfruttare i suoi governi devono essere in grado di affermare nelle sedi europee l’assoluta priorità di politiche di crescita, preparandosi a trarre le inevitabili conseguenze qualora non trovassero ascolto, come purtroppo finora è stato.
Alberto Bagnai
Libero, 6 marzo 2014