Sorpresa: l’Economist scopre il debito privato

Alberto Bagnai 23 Maggio 2015

Con flemma britannica l’ultimo «Economist» cade dal pero scoprendo che il mondo è oppresso da una montagna di debiti. Ci fa su una copertina a effetto, per poi porsi domande e darsi risposte, alcune spassose e altre rivelatrici. La tesi principale, riassunta dal titolo: “Un sussidio insensato”, è piuttosto esilarante. Secondo l’«Economist», il principale motivo per il quale il mondo sta accumulando debito è che i governi ne avrebbero reso artificialmente basso il costo, sottraendo al fisco gli interessi passivi, deducibili in tutto o in parte (mentre i dividendi cadono sotto la mannaia del fisco).

Senza questo sussidio implicito e insensato, prosegue l’articolo, si emetterebbero più azioni, e il mondo sarebbe meno oppresso dal peso del debito. Che un periodico liberista dia la colpa allo Stato, e in particolare alle tasse, ce lo possiamo aspettare. Più sorprendente il fatto che l’«Economist» lamenti che siano poche: ma da quando la crisi è iniziata di cose strane ne abbiamo viste molte. Fatto sta che gli stessi dati prodotti dall’editorialista mostrano quanto il suo argomento sia fasullo.

Un dato in particolare balza all’occhio: settore pubblico e famiglie contano per quasi due terzi del totale del debito (negli Usa come nel resto del mondo). Abbiamo visto “partiti azienda”, ma non ci risultano casi di Stati o famiglie “per azioni”. Insomma: la stragrande maggioranza del debito è in capo a soggetti che non possono collocare azioni, per cui non si vede bene come un loro ricorso (impossibile) a questa modalità di finanziamento risolverebbe il problema. Non solo: il profilo temporale dell’indebitamento contraddice questa ipotesi. Il grafico situa il decollo del debito all’inizio degli anni 80. In quel periodo, però, non vi fu alcuna riforma del regime fiscale degli interessi.

La prima arrivò nel 1986, con il Tax reform act, che aumentò la deducibilità degli interessi su prestiti ipotecari (con l’idea di favorire l’acquisizione di case di proprietà), ma escluse dal beneficio gli interessi sul credito al consumo. Il “sussidio insensato”, posto che fosse tale, intervenne dopo l’esplosione del debito. Nell’impapocchiare la sua spiegazione l’«Economist» si lascia sfuggire due interessanti pezzi di verità. Intanto, negli Stati Uniti, e in generale nel mondo, il settore pubblico emette meno di un terzo del debito complessivo. I restanti due sono debito privato, emesso da famiglie e imprese. Ma voi, di debito privato, sentite mai parlare? No: sentite parlare solo di debito pubblico, causato dalla propensione allo scialacquo dei politici (tutti ladri, tutti disonesti, ecc.).

Una spiegazione populista (parla alla pancia dell’elettore facendo leva sulla sua invidia sociale) e parziale, perché dimentica i due terzi del problema! Nelle pieghe dell’articolo si nasconde un’altra verità: Adair Turner (ex presidente della Consob inglese) sostiene che il debito è “amplificato” dalla disuguaglianza. Un grazioso eufemismo che allude alla vera causa del problema. La controrivoluzione liberista dei primi anni ’80, con l’avvento al potere di Reagan e Thatcher, si traduce ovunque in uno schiacciamento dei redditi da lavoro a vantaggio dei profitti. Ma il capitalismo funziona se qualcuno compra. Il singolo imprenditore che riduce il “costo del lavoro”, cioè che paga di meno il suo operaio, ha vinto: i suoi profitti aumentano. Peccato che poi lo facciano anche i suoi colleghi, e alla fine perdono tutti: nel sistema circolano meno soldi, i fatturati crollano, e con loro i profitti.

Come argomento ne L’Italia può farcela, la controrivoluzione liberista segna appunto il passaggio da un capitalismo “guidato dai salari”, dove il dipendente è visto come cliente (come lo vedeva Henry Ford, per capirci), a un capitalismo “guidato dal debito”, dove il dipendente è costretto a indebitarsi per sopravvivere. La causa del decollo del debito (prima pubblico, poi privato) è qui: nella necessità di sostenere l’acquisto di beni in un capitalismo che non vuole distribuire ai lavoratori un potere di acquisto proporzionato al valore aggiunto che essi hanno contribuito a creare.

Una cosa è chiara dai dati: l’ammontare dell’esposizione debitoria complessiva ha raggiunto, in rapporto al Pil, un livello pari a quello toccato prima dell’ultima guerra. Storicamente, le crisi debitorie si risolvono in tre modi: con la bancarotta, con l’iperinflazione, o con la crescita, che mette i debitori in condizione di saldare i debiti. I creditori, però, preferiscono la disoccupazione e la deflazione, che mantengono intatto il valore dei loro crediti. Così, nell’Eurozona a guida tedesca, i governi percorrono la strada dell’austerità, prendendo a pretesto la necessità di sanare quel debito pubblico che però, come l’«Economist» ci mostra, è il pezzo più piccolo del problema. L’austerità amplifica il vero problema: oppresse dai tagli e dalle imposte, famiglie e imprese vanno in sofferenza. Non è quindi strano che dopo tanta austerità siamo indebitati più di prima.

È già successo. Brüning, dopo aver posto con la sua austerità le premesse per l’ascesa di Hitler, se ne andò a insegnare a Harvard, e poi, per trent’anni, fu possibile vivere in un mondo in cui il lavoro veniva remunerato correttamente e il debito diminuiva. Ah, sì, dimenticavo: fra l’austerità e la cattedra a Harvard ci fu una guerra mondiale. Ottanta milioni di morti che suggerirono ai governanti un minimo di ragionevolezza. Ce ne sarà bisogno anche questa volta?

Alberto Bagnai
Il Fatto Quotidiano, 20 maggio 2015

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