Impatto di un riallineamento del cambio sull’economia italiana

Alberto Bagnai 24 Giugno 2014

È opinione generalmente condivisa che l’attuale quotazione dell’euro sul dollaro sia eccessivamente alta, e che una svalutazione dell’ordine del 20% contribuirebbe a dare ossigeno all’economia italiana (vedi ad esempio Prodi, 2014). Dato che il commercio italiano si svolge prevalentemente con paesi dell’Eurozona, e in particolare del “nucleo” (Germania, Francia, Olanda, Austria, ecc.), ci si può chiedere quanto un riallineamento della moneta unica possa essere in effetti risolutivo, anche considerando il fatto che le evidenze empiriche dimostrano come le elasticità al reddito delle importazioni italiane verso il nucleo dell’Eurozona sono particolarmente elevate, dal che consegue che ogni incremento di reddito realizzato promuovendo le esportazioni verso paesi terzi (BRIC, paesi OCSE non appartenenti all’Eurozona, ecc.) si incanalerebbe molto probabilmente verso l’acquisto di beni provenienti dal Nord Europa, lasciando la posizione netta dell’Italia in condizioni non particolarmente migliori di quelle di partenza.

Un indizio in tal senso viene dal fatto che a partire dall’aggancio all’ECU nel 1997 la posizione creditoria netta dell’Italia verso il resto del mondo (il saldo delle partite correnti) è andata peggiorando in modo consistente, mentre il cambio dell’ECU e poi dell’euro verso il dollaro ha avuto le più svariate vicissitudini, con oscillazioni molto ampie nell’un senso e nell’altro, senza particolare impatto sulla dinamica avversa delle partite correnti italiane.

Simulazioni preliminari condotte con il modello econometrico di a/simmetrie mostrano che la svalutazione della moneta unica non sarebbe risolutiva, perché i benefici conseguiti verso i paesi terzi sarebbero più che compensati, nei primi anni, dalla perdita rispetto ai paesi dell’Eurozona (e in particolare del suo “centro”), determinata essenzialmente dall’effetto reddito.

Questi risultati gettano una luce critica su qualsiasi prospettiva di risolvere la crisi italiana eludendo il problema di un riallineamento nominale fra centro e periferia dell’Eurozona, come pure di risolverla con politiche di stimolo della domanda interna in deroga ai “parametri europei”, dato che, in assenza di un drastico stimolo fiscale espansivo da parte dei paesi del Nord, qualsiasi espansione della domanda italiana (determinata vuoi da un aumento della spesa pubblica, vuoi da un aumento delle esportazioni nette), porterebbe ad un rapido squilibrio dei conti esteri italiani, esponendo il paese a una nuova crisi di bilancia dei pagamenti come quella sperimentata nel periodo 2010-2011.

 

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