L’istruzione

Elisabetta Frezza 27 Ottobre 2020

La scuola c’entra, eccome, con il conformismo.

In quanto bacino di raccolta e di smistamento delle giovani generazioni, la scuola è un ganglio fondamentale nella edificazione del mondo nuovo degli uguali, obbedienti e pacificati perché cresciuti senza velleità di pensiero. Che la scuola si sia intestata questo compito palesemente antitetico alla propria ragion d’essere è uno dei tanti paradossi che ci sono inflitti nel tempo delle verità invertite, del bi-pensiero e della ubriacatura delle parole in libertà. Un paradosso esiziale della cui esistenza, e soprattutto della cui gravità, pochi si rendono conto. 

Per parte mia, consegnerò qualche riflessione che attinge a quello che, in fondo, è il movente che mi ha spinto in questi anni ad approfondire alcuni aspetti legati alla scuola e alla educazione, ovvero l’esperienza diretta come madre di cinque clienti dell’istruzione pubblica italiana distanziati di un triennio l’uno dall’altro: un’esperienza che ho vissuta in una prima fase quasi passivamente ma, dopo un paio di giri di ricognizione, in modo via via più disincantato, non fosse altro che per l’esito impietoso del confronto diacronico tra le varie istantanee scattate allo stesso soggetto lungo l’arco di qualche lustro. 

Quella signora un po’ agée, ma ancora piacente e ancora feconda che era la scuola italiana – un tempo ammirata da tutti come modello di eccellenza sulla scena mondiale – si è rapidamente deturpata. O meglio, come è facile capire, basta grattare appena appena il cerone che le è spalmato in faccia, è stata deliberatamente sfigurata, in esecuzione di un preciso disegno criminoso, per dirla in gergo penalistico. Perché c’è del dolo e c’è del metodo in questa follia autodistruttiva, anche se, come sempre, bisogna distinguere tra diversi gradi di compartecipazione: ci sono i mandanti, pochi, ci sono gli esecutori più o meno consapevoli, ci sono gli utili idioti. E questi sono molti di più.

Fatto sta che di fronte all’evidenza – che è una evidenza empirica – di un tracollo culturale devastante del nostro sistema di istruzione, lanciato all’inseguimento anziché posto a compensazione e presidio di una degenerazione morale e sociale diffusa e sotto gli occhi di tutti – un tracollo avvenuto all’insegna proprio della omologazione coatta camuffata da progresso pedagogico – non si può innanzitutto non soffrire. Poi, occorre farsi qualche domanda sul come questo fenomeno si sia potuto verificare senza intoppi. E alla fine non si può nemmeno assistere inerti all’annientamento seriale dei cervelli e alla loro manipolazione programmata. Tanto più in quanto tutto questo proviene dall’istituzione che più di ogni altra dovrebbe esser responsabile del futuro di una nazione. E dovrebbe guardare a finalità di ordine generale e superiore, di elevazione culturale, di edificazione umana e sociale.

E invece lo Stato è progressivamente arretrato dalla scuola cosiddetta pubblica, per lasciare spazio a un moloc burocratico militarizzato a servizio del capitale privato, e quindi di interessi particolari e obiettivi eccentrici rispetto al bene comune. C’è infatti un consorzio di enti privati formalmente estraneo alle istituzioni, ma ufficialmente acquattato sotto il loro ombrello, che, per le politiche scolastiche, detta la linea ai governi, materialmente scrive le riforme e mette a frutto risorse finanziarie imponenti; si avvale di un apparato burocratico cristallizzato e inamovibile, un esercito di gnomi in servizio permanente, che innerva e presidia le istituzioni centrali e periferiche (dai funzionari ministeriali fino ai singoli dirigenti istituto). È una delle articolazioni del deep state di cui si è parlato in un panel di questo incontro, traducibile con Stato parallelo, o Stato nello Stato, o imperivm in imperio. Esso si avvale anche del contributo fondamentale di quei nuovi oracoli (gli enti di rilevamento quali l’INVALSI, l’OCSE PISA, o gli osservatòri quali Eduscopio della Fondazione Agnelli) che emettono vaticini intimidatori e compilano pagelle e che, di fatto, pilotano flussi di iscrizioni, finanziamenti, programmi; e lo fanno sulla base di verifiche periodiche sia sulle “competenze” e “abilità” degli studenti attraverso quiz a crocette (l’”abilità” richiesta, cioè, è di livello pressoché scimmiesco), sia sulla qualità delle offerte formative delle scuole. Questi test servono, ci dice chi li elabora, «Per valutare in modo standardizzato le performance degli studenti» e «per influenzare le politiche di riforma globalizzando il campo dell’educazione».

Standardizzazione, globalizzazione: queste sono le parole d’ordine, e non c’è molto da aggiungere. 

Ed è questo, in estrema sintesi, l’orizzonte che ha ispirato un processo pluridecennale di riforme sulla scuola, tutte accomunate da una stessa identica ratio; processo che si è coronato e ha raggiunto l’apoteosi nell’estate del 2015 con l’epifania della buona scuola renziana, buona appunto per autocertificazione. Una legge fraudolentemente confezionata, furtivamente votata, poderosamente finanziata – evidentemente per la bonifica dei cervelli non si bada a spese – che si è rivelata uno scrigno inesauribile di trovate devastanti modellate sui diktat sovranazionali. Si potrebbe parlare a lungo delle trovate contenute nel lungo, farraginoso e sconnesso testo della legge (dall’alternanza scuola-lavoro, all’orientamento, agli obiettivi formativi prioritari, alle competenze chiave per l’apprendimento permanente, al metodo CLIL). Qui basti dire, in via generale, che con la legge 107 è stato assemblato un sofisticato marchingegno funzionale a inglobare nell’ordinamento interno – in alcuni casi di soppiatto, facendolo entrare da una porticina di servizio attraverso un gioco di rinvii plurimi, concatenati e permanenti (cioè fatti per recepire in modo automatico e continuativo quanto elaborato in sede extra-parlamentare) – tutto quanto viene sfornato senza tregua dalle tecnocrazie europee. Cioè dal mostro burocratico senza volto e senza responsabilità i cui pronunciamenti in materia di istruzione non sono di per sé vincolanti per gli Stati membri, in teoria, ma nei fatti lo diventano per via del ricatto economico. 

L’UE, dal canto suo, ci manda a dire attraverso le sue martellanti risoluzioni, che «crede fortemente nel potenziale trasformativo dell’istruzione». E come darle torto.

Dunque, è su un cumulo di macerie che si è abbattuto il meteorite chiamato Covid. Un virus assai controverso, ma a quanto pare provvidenziale per permettere di instaurare, e perpetuare sine die, uno stato di emergenza che serva a impunemente calpestare le garanzie costituzionali e a deprimere le libertà fondamentali. 

Il regime sanitario ha investito di prepotenza anche la scuola imprimendo una svolta inquietante all’addestramento precoce alla vita in schiavitù. Lo Stato poliziesco – lo Stato democratico poliziesco – si appropria manu militari dei suoi sudditi in erba per crescerli ligi, uguali e obbedienti. Lo fa imponendo loro l’isolamento, fisico e psicologico; un controllo sanitario sempre più stringente; un penetrante, sinistro condizionamento ad assumere comportamenti conformi, quasi rituali, un po’ come tante scimmiette addestrate. L’arma vincente è la minaccia dell’esclusione dei non conformi, per indegnità, dal gruppo dei pari e dal consesso civile. 

Tutto questo, chiaramente, fa il paio con l’opera risalente di annichilimento culturale e di sistematico immiserimento del sapere; che tra l’altro si realizza anche attraverso la normalizzazione della scuola digitale: i banchi a rotelle non sono altro che un modo, obliquo e surrettizio, per imporre e consolidare questo modello.

Non per niente l’UNESCO, riferendosi alla scuola dell’emergenza, l’ha significativamente decantata come «l’esperimento di più vasta scala nella storia dell’istruzione»: siamo di fronte, ce lo dicono apertis verbis, a uno straordinario esperimento di ingegneria sociale condotto sulle nuove generazioni, realizzato attraverso le istituzioni, apparecchiato dalle élite globalizzanti che aspirano ad annientare gli anticorpi di un’intera società procurandosi individui fabbricati in serie, monocromi, monofoni, possibilmente anche unisex. Privi di ogni coscienza identitaria.

È fondamentale tenere presente come il recente shock– che comunque ha avuto come effetto collaterale: quello di accendere i riflettori su una scuola che fino a ieri si era deteriorata col favore del buio – abbia dato il colpo di grazia a un edificio fatiscente di cui restava in piedi ormai soltanto la facciata. Perché l’opera di demolizione si è dispiegata per decenni sottotraccia e nell’acquiescenza dei più. 

Come è possibile che non ci sia stata una reazione adeguata allo scempio? Innanzitutto ha contribuito la suggestione del nuovo (che, per la vulgata, è buono per definizione, a prescindere da ogni giudizio assiologico); poi, il ben noto ruolo eversivo del lessico, che sappiamo essere fondamentale per sovvertire qualsiasi paradigma: il mondo della scuola batte una vera e propria lingua parallela, fatta di un repertorio di formule di ordinanza, che intesse e permea tutte le fonti, dalle leggi, ai decreti, alle circolari, fino ai PTOF, ai documenti di valutazione. È un metalinguaggio esoterico, performativo, osceno – che dovrebbe urtare in primo luogo il senso estetico di chi abbia nell’orecchio i bei suoni e sensati della propria lingua madre – ma che tutti si trovano ormai a ruminare con disinvoltura finendo per entrare, tutti, in risonanza, chiusi a chiave dentro una surreale gabbia onomastica. 

Ma a rallentare la percezione della rovina ha contribuito anche l’inerzia di un sistema dalle solide fondamenta umane, grazie a docenti di valore che, nel loro orto, hanno continuato a seminare bene avendo la preparazione e la vocazione per farlo, e anche la abnegazione per resistere al trattamento degradante riservato alla categoria (e non ci si riferisce solo e tanto l’aspetto economico, quanto alle consegne burocratiche vessatorie, ai demenziali corsi di formazione e di aggiornamento, o ai meccanismi premiali che favoriscono solo chi si presta a fare la parte dell’imbonitore, dell’animatore da villaggio vacanze, del guitto da cabaret). Per quanto bisogna prendere atto che oggi questi maestri superstiti sono sempre più isolati, perché anche la loro è una specie in via di estinzione visto che nel frattempo la stessa università, programmaticamente svuotata della cultura, è per lo più adibita alla produzione massiva di analfabeti di grado superiore. 

Come sanno dunque bene a Bruxelles, espugnare l’educazione vuol dire accaparrarsi il futuro. Garantire agli scolari un sicuro e confortevole stato di analfabetismo serve a forgiare materiale umano standardizzato, conforme e obbediente. Svirilizzato, privo dell’attitudine al combattimento e quindi incapace di reagire al proprio annientamento programmato. Individui appagati dalla astratta titolarità del proprio “diritto al successo formativo”, dalle proprie “competenze permanenti” (certificate da qualche diploma rilasciato a norma europea), dall’imparare a imparare senza nulla ritenere, e da tutto il resto del ciarpame di formulette beote inventate per distorcere e stravolgere il senso della scuola e la sua stessa ragion d’essere. 

Ecco perché è stato smantellato pezzo per pezzo un sistema scolastico che aveva il grave difetto di funzionare a dovere (non per nulla era concepito da un fior di filosofo), ed è stato sostituito da un impianto a impostazione aziendalista e mercatista (assicurata dal principio portante dell’autonomia scolastica) che, nel giro di pochi anni, ha reso la scuola un incrocio tra un luna park e un laboratorio di rieducazione etico-sociale collettiva, trasformandola così in una parodia di se stessa. Grazie anche – purtroppo – alla collaborazione delle varie parti in causa, genitori in primis, attratti dagli effetti speciali che fanno impennare gli indici di gradimento: più progetti psichedelici e più distrazioni variopinte compaiono nei PTOF, più premiano la scuola al passo con i tempi, e pazienza se i tempi sono barbari. Quanto ai docenti, assistono pressoché inerti, passivi, rassegnati, al proprio umiliante esautoramento e tutt’al più si agitano per qualche rivendicazione sindacale.

Lo svuotamento culturale della scuola italiana si realizza attraverso una vera e propria sostituzione dei contenuti – aliud pro alio si dice nella disciplina dei contratti: al posto delle discipline fondamentali, al posto dei mattoni della conoscenza – detti anche nozioni, che non è una parolaccia come vogliono farci credere, ma deriva da nosco, che è l’atto del conoscere – le ore curricolari sono rimpinzate di contenuti usa e getta ad alto tasso ideologico, sempre in linea col monopensiero obbligatorio. Le lezioni nelle materie fondamentali cedono il passo a un profluvio di pseudo-educazioni, di progetti ricreativi, talvolta peraltro fastidiosamente e abusivamente invasivi della sfera più intima e personale dei soggetti in via di formazione, con il correlativo esautoramento della famiglia dal suo fondamentale primato educativo: si badi, anche la scuola certamente educa, ma educa istruendo, la sua deve essere una educazione mediata. Tutte queste attività assortite spesso e volentieri viaggiano in groppa ad altrettanti “esperti” esterni al corpo docente, figure non istituzionali che sfuggono a qualsiasi controllo e responsabilità.

Ma cosa comporta la somministrazione di una macedonia di contenuti evanescenti, per lo più peraltro di pessima qualità? Che agli studenti si dà una spolverata di tutto, la dispersione ha la meglio sull’approfondimento, si deprime sul nascere ogni tentazione analitica e ogni anelito speculativo, di fatto ogni vero esercizio intellettuale. La superficialità e l’approssimazione vengono erette a sistema e vengono acquisite come metodo di lavoro.

E così la scuola è ridotta a un gigantesco asilo. Come sostiene per esperienza diretta un mio amico bellunese che ha insegnato nei vari ordini e gradi di scuola: «un insegnante che negli scorsi anni fosse passato dalle elementari alle superiori, transitando per le medie, avrebbe visto la scuola elementare corrergli dietro: l’intero sistema infatti ha recepito dalla scuola elementare, e in tempi rapidissimi, un’attenzione spasmodica alla didattica modellata su quella delle elementari» (Emilio Da Rold, De vindicanda humanitate libellus). 

Insomma, assistiamo a un imponente processo di infantilizzazione di massa, che investe anche la formazione accademica. Nelle stesse università colpisce la tendenza, che è diventata un imperativo, alla semplificazione sempre e comunque: lo sforzo è bandito, deve essere risparmiato a questi giovani che si dice siano tanto svegli, ma nel contempo li si considera altrettanto incapaci di impegnare l’attenzione, la concentrazione, la memoria (la tanto vituperata memoria), disabituati come sono a quella fatica che è parte integrante dello studio. Una volta si preparavano esami ponderosi e nessuno è morto per questo, ora pare gli studenti non siano più in grado di sostenere l’impresa e debbano per forza rendere conto del programma a pezzi. Ma frammentare la preparazione, ad esempio (parlo per la mia facoltà), di un diritto privato, o penale, o di una procedura, al di là forse di un sollievo immediato, provoca un danno importante: impedisce a chi studia di guadagnare uno sguardo di insieme, di cogliere i collegamenti tra i vari istituti, e dunque di percepire il sistema, di farlo proprio e di essere in grado di dominarlo con gli strumenti della logica. E tuttavia pare ormai essere una strada obbligata perché sennò si flette l’indice di gradimento, si perdono iscrizioni, punteggio, ribalta, finanziamenti, e un po’ alla volta la facoltà che intenda mantenere una impostazione rigorosa è condannata alla morte per asfissia.

La damnatio memoriae della scuola di matrice gentiliana è stata politicamente orchestrata nel nome di una malintesa democratizzazione. A simbolo della missione riformatrice è stato eletto quel don Milani, teorico della scuola egualitaria – nel senso di votata a conseguire l’uniformità dell’ignoranza – che, idolo mai tramontato dei maestri di fede giacobina, si è rivelato essere la cerniera perfetta, in materia pedagogica, tra il progressismo laicista e il progressismo parareligioso, già attratti l’un l’altro da molte affinità elettive. Abbiamo visto come, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte del prete di Barbiana, sia stata orchestrata una imponente operazione mediatica che lo ha celebrato, universalmente e trasversalmente, come modello pedagogico: «educatore appassionato per una scuola aperta e inclusiva» suonava l’epitaffio che gli è stato dedicato, identico, sia dall’allora ministro Fedeli sia da Bergoglio, in quella straordinaria corrispondenza di amorosi sensi tra i due che si è manifestata in molte altre occasioni, a partire dal libro scritto a quattro mani sulla scuola che ha mutuato il titolo da una delle formulette tratte dal nuovo pedagogismo di maniera: imparare a imparare

Ma questa vis riformista, e iconoclasta, che si è abbattuta sull’istruzione italiana ha sortito l’effetto paradossale che la scuola pubblica, nata come straordinario strumento per sollevare le masse dalla ignoranza, si è intestata ufficialmente il compito di assicurare l’ignoranza di massa.

Del resto la deculturazione è una chiave di sottomissione. È tanto più vero oggi che il martellamento mediatico, alimentatore di superstizioni inscalfibili, ha definitivamente cancellato anche il senso comune, inteso come comune buon senso, che una volta era preservato agli esseri pensanti e affezionati al principio di realtà, anche non acculturati.

Chi è culturalmente depresso (ma non lo sa perché è solidamente indottrinato) non è in grado di turbare o intralciare le simmetrie del potere, perché è strutturalmente incapace di decifrare e interpretare i fatti e i loro nessi causali, la loro genesi e le loro conseguenze. Fluttua nell’eterno presente ipertecnologico e omogeneizzato, ed è una docile rotellina di un ingranaggio che si muove al ritmo salmodiato dei ritornelli ipnotici creati apposta per scardinare la verità delle cose e far perdere alle masse la percezione della realtà. 

Dal canto suo, chi ha in mano il telecomando sa benissimo che è la prima cosa da fare è diserbare il campo perché non vi cresca più il pensiero, perché si atrofizzi la memoria e possano regnare incontrastati il vuoto delle idee e la fuga dalla realtà. Il vuoto infatti si può riempire agevolmente con qualsivoglia contenuto funzionale al potere costituito.

Questo della deculturazione, peraltro, è un fenomeno che si intreccia con altri che sono sotto i nostri occhi e stanno rapidamente sovvertendo ogni aspetto dell’ordine sociale ancora esistente: si intreccia con la dissoluzione della sovranità dello Stato (inteso come res publica, letteralmente come “cosa pubblica”); si intreccia con la demonizzazione della idea di patria (cioè terra in cui si è nati e che ospita le ossa dei padri, qualcosa che ha a che fare con un legame viscerale e primitivo, con un sentimento spontaneo e irriducibile di appartenenza al luogo dove è sedimentato un patrimonio comune, etico, sapienziale, estetico:); e tutto questo si intreccia con il fenomeno imponente della sostituzione di popolo. Infatti, da un lato è evidente come l’importazione massiva di esseri umani imponga la dismissione della nostra cultura (non è facile insegnare il dolce stil novo a classi interamente allogene) e, d’altra parte, è proprio la dismissione culturale il presupposto necessario per far subire agli autoctoni l’invasione programmata senza che oppongano alcuna resistenza. Perché soltanto un popolo già fiaccato nel proprio radicamento identitario può farsi terreno di conquista o di rapina senza vendere cara la pelle.

A questo sistematico sradicamento e livellamento gli scolari sono sottoposti da lungo tempo, attraverso appositi strumenti pensati e implementati per indottrinarli tutti con lo stesso becchime e anche – in seconda battuta – per sventare il rischio che qualche pollo dell’allevamento intensivo globale ceda alla tentazione di guardare oltre la propria stia.  

Nella scuola delle competenze e delle abilità che hanno soppiantato le conoscenze, dove si plasma l’homo novus e faber, il saper fare ha sostituito il sapere, il bambino deve essere infilato il più precocemente possibile nel tubo specialistico selezionato per lui, senza prese d’aria né uscite di sicurezza; gli studiosi e i contemplativi sono banditi dal sistema per manifesta inutilità. Paradigmatica è la mortificazione della storia, in particolare quella antica (a fronte dell’enfasi posta sulla preistoria), a partire dalle elementari – si preferisce l’appiattimento sulla attualità, che è asservita alla cronaca e quindi alla propaganda – così come della filosofia e della storia del pensiero, a partire dalle sue origini; così come, ancora, è paradigmatico l’attacco sistematico sferrato alla formazione classico-umanistica che, attraverso l’indagine sull’uomo, la sua indole, il suo passato, la sua natura spirituale, la sua vocazione e il suo destino, rischia di fornire al discente gli strumenti necessari per acquisire un grado di consapevolezza un po’ eccessivo per chi è chiamato a essere non tanto un uomo e un cittadino (come voleva l’antica paideia), quanto un suddito modello. 

Ma così si spiega anche l’erosione della nostra lingua: sia lo svilimento di tutti i suoi aspetti culturali, storici, letterari, sia la semplificazione del lessico, favorita anche dall’uso massivo degli strumenti multimediali e dalla ipertrofia dell’inglese (che poi non certo quello di Shakespeare, ma è quello del mercato e del supermercato). È evidente che, perduto ogni rispetto per il proprio passato e per la custodia della propria tradizione culturale, perde ogni significato anche il dominio della propria lingua: la colonizzazione linguistica e culturale che gioiosamente e masochisticamente ci stiamo autoinfliggendo non è altro che un rinnegamento della nostra identità che si esprime nella lingua madre: la lingua che ci fa da madre, letteralmente, un idioma ricco come pochi di storia e di bellezza espressiva, che racchiude una civiltà intera, la quale è vissuta e vive dentro la sua lingua.

Al posto di tutto questo ben di Dio, c’è però il pacchetto delle famose competenze trasversali (soft skills), che investono trasversalmente (appunto) tutte le materie e influenzano le relative valutazioni; cioè, offrono uno strumento di valutazione tanto appuntito quanto inafferrabile e quindi arbitrario e soprattutto avulso e disancorato dalla materia di studio della cui preparazione, in teoria, si tratta di valutare: l’insegnante ha tra le mani un criterio di giudizio che può convertirsi a piacere, e impunemente, o in un plusvalore repressivo con cui tenere in pugno gli alunni magari eccellenti ma non allineati o, viceversa, in premio gratuito per il somaro che sia dedito al conformismo ideologico. 

Mutatis mutandis, lo stesso retrogusto “totalitario” si percepisce nella insistenza sulla centralità del gruppo, sul (così definito dagli “esperti”) “benessere gruppale”: una vera e propria mistica del gruppo classe, che per definizione deve essere concorde e omogeneo. Un altro appello a conformarsi: nella comunità scolastica irenista e omogeneizzata il dissenso è istituzionalmente bandito, non c’è spazio per chi la pensa in modo divergente.

Ma pensiamo anche al totem della “educazione alla legalità”. Una parola magica, che emette un suono rassicurante e in apparenza incontestabile, ma che in realtà nasconde un equivoco insidioso, e per nulla casuale, perché funzionale a inculcare l’ossequio incondizionato alla legge, ovvero a tutto quanto venga sancito, secondo i riti del sistema democratico (ormai sono superflui anche quelli, in tempi di DPCM selvaggi), dalla autorità costituita. Ma dietro la legalità, dietro l’ossequio alla giuridicità formale, viene oscurata e assorbita l’idea di giustizia e il suo valore sostanziale, che ha a che fare con principi oggettivi e resta superiore a qualsiasi legge positiva. Lo dimostra il fatto che le leggi ingiuste esistono e occupano proprio lo spazio in cui la giuridicità formale non si sovrappone alla giustizia sostanziale: sono un fenomeno ricorrente, che ha costellato la storia delle comunità umane, dalla polis antica agli Stati moderni. Ma se la storia ci ha insegnato qualcosa, a partire da Antigone, le leggi ingiuste non vanno obbedite, vanno combattute. La legalità, invece, quale oggetto di culto scolastico, e non solo scolastico, tende invece a instillare la deferenza al potere e la fiducia cieca nell’infallibilità dell’istituzione. 

Si può vedere bene da questi esempi come la scuola non sia più chiamata a richiedere conoscenze verificabili, ascrivibili al proprio magistero e organiche alle materie di insegnamento, ma è chiamata sempre più, attraverso i suoi occhiuti emissari o i suoi esperti, a descrivere comportamenti, a scrutare atteggiamenti, a imporre stili di vita e modi di pensare conformi.

Perché, nel tempo di tutte le libertà, abbiamo conquistata una cassaforte piena di obblighi inderogabili. Dentro questa cassaforte c’è il pensiero obbligatorio che copre ogni ideale e ogni esigenza di ragione. Nello specifico, ci sono l’eurofilia e più genericamente l’esterofilia, l’immigrazionismo, lo scientismo, il darwinismo, l’ambientalismo sub specie mondialista (Greta per intendersi, e Pachamama), l’antirazzismo, l’omofilia, i genderismo, e tanto altro ancora, tutto rigorosamente obbligatorio.

Un repertorio dogmatico che ora è assorbito in blocco dentro il contenitore della educazione civica, nuova materia curricolare obbligatoria a partire dalle elementari, che sfrutta una etichetta familiare, che suona bene, per trasportare tutti i macromotivi delle ideologie in voga: condivide solo il nome di battesimo con la vecchia educazione civica che era ancillare alla storia e riguardava i rudimenti del diritto costituzionale. Ora è imperniata fondamentalmente, oltre che sulla cosiddetta cittadinanza digitale (che non manca mai), sull’Agenda ONU 2030 (articolata in 17 goal, cioè obiettivi), per fornire in dotazione a tutti gli scolari, a partire dalla più tenera età, il prontuario dei diritti e dei doveri del bravo ominide omologato, ovvero tutta quella paccottiglia mondialista che serve a forgiare masse di incolti, e obbedienti, senza storia, senza radici, senza vera formazione umana, ma che sanno di tecnologia, di imprenditorialità, di rifiuti riciclabili, e di altre “abilità” assortite. Una umanità conforme, invertebrata, perfettamente fungibile e perciò in via di rapida sostituzione. (Probabilmente, tra i doveri del bravo cittadino globale sarà presto incluso anche l’esercizio della delazione, come nuova virtù civica richiesta nella democrazia panottica che arruola gli informatori di Stato per fare piazza pulita degli untori/dissidenti).

È significativa l’insistenza dei programmi sulla “cittadinanza globale”, un ossimoro persino ridicolo. Cittadino è colui che abita la polis, che abita lo Stato, che è parte cioè di un tessuto omogeneo e che per questo è anche orgoglioso difensore della propria terra. Adesso l’illusionista collettivo, con uno dei suoi giochi di prestigio, ha sostituito la polis con la cosmopoli, che semplicemente è un non-luogo, in cui nessuno è nato, in cui nessuno è cresciuto e che nessuno conosce, ma in cui ognuno deve essere disperso, una bolla dell’indistinto creata strategicamente per contenere l’apolide, che è per l’appunto il non-cittadino.

L’obiettivo dell’ONU è quello di creare cittadini globali, liquidi, anzi gassosi, e di «fare del sistema di istruzione uno dei principali agenti di cambiamento per gli obiettivi dell’Agenda 2030» in un’ottica di LifeLongLearning (cioè apprendimento permanente, cioè treeLLLe). La nuova educazione civica risponde proprio a questo richiamo.

Ma i goal dell’agenda sovranazionale sono gli stessi goal che oggi si fregia di inseguire anche la chiesa, la chiesa che fu cattolica e ora si è definitivamente e felicemente convertita alla religione unica di Bruxelles, dell’ONU e dei suoi magnati.

È in atto un’opera poderosa e meticolosa di omogeneizzazione pilotata dei valori di riferimento: nel sistema di pseudo-valori artefatti, farlocchi, ma orecchiabili e a buon mercato propri della teologia onusiana sono confluiti senza sforzo i cascami del cristianesimo contraffatto e così il tutto può assumere, per tutti, il volto rassicurante della cosa buona, giusta, moralmente edificante, apparentemente cristiana.

Siamo di fronte alla saldatura ormai ermetica tra le tecnocrazie sempre più clericalizzate e la neochiesa ormai completamente despiritualizzata, sotto l’insegna del “nuovo umanesimo”, concetto gesuitico – chiave di volta del magistero orizzontale bergogliano – intorno al quale è ruotato il discorso di insediamento del Presidente del Consiglio nella sua seconda versione. Oramai queste due galassie sono una cosa sola, parlano la stessa lingua, inscenano le stesse liturgie, inseguono gli stessi identici obiettivi e si spartiscono la stessa torta. In sostanza, professano la stessa fede.

Puntano insieme, guardacaso, a conquistare il monopolio della educazione. 

Questa santa alleanza è suggellata nel grande evento che era in programma per lo scorso maggio in Vaticano, ma che poi, a causa della emergenza sanitaria, è slittato al 15 ottobre convertito in modalità “a distanza”: in un videomessaggio urbi et orbi Bergoglio ha invitato tutte le persone di buona volontà ad aderire al Global Compact on Education, cioè al patto educativo globale definito nella nuova lingua sacra che ha sostituito il latino, «per generare un cambiamento su scala planetaria» in nome di: ecologia integrale, pace e cittadinanza, fraternità e sviluppo, inclusività, sostenibilità, resilienza, e (come poteva mancare la nota metafora edilizia) ponti e non muri.

Ecco quindi che il capo della chiesa postcattolica mette a tema la necessità di «ricostituire il patto educativo globale per costruire il futuro del pianeta», come da decalogo mondialista risultante dal combinato disposto della Agenda ONU 2030 e della enciclica Laudato sì, che non sono altro che due facce della stessa medaglia. Ora, per non farci mancare niente, abbiamo anche Fratelli Tutti.

È nello scenario sopra descritto che si è verificato ora un ulteriore cambio di passo. La scuola oggi è diventata il banco di prova per l’esercizio di poteri tanto arbitrari quanto incontrollabili, in cui si rispecchia l’immagine di una politica minacciosamente scivolata verso il sopruso istituzionalizzato. Saltata la gerarchia delle fonti del diritto e saltato il principio di legalità della azione amministrativa, siamo all’assurdo che una linea guida o un DPCM (che non esiste in rerum natura, ma è un monstrum uscito dal cilindro del sovrano) valgono più di una legge e della stessa Costituzione.

In questa giungla, dove vige la legge del più forte, chiunque senta di avere una fettina di potere da esercitare, e sia sprovvisto di scrupoli e della riserva aurea del pensiero, viene subito contagiato dalla sindrome del kapò – che ha trovato terreno fertile nella rete burocratica delle scuole – capace di degenerare in un senso di rivalsa foriero di una vera e propria libidine di comando e di prevaricazione. In un virtuosismo di demenza e di prepotenza di fronte al quale la maggior parte delle persone, suggestionata e intimidita dal piglio e dalle formule autoritarie brandite, mette da parte ogni possibile reazione che il buon senso dovrebbe suggerire. 

È l’occasione d’oro per portare a compimento il piano di smantellamento della scuola come luogo della relazione vitale e fertile che lega chi insegna e chi impara e i discenti tra loro. Attraverso la smaterializzazione dei processi di apprendimento e la loro deformazione per mezzo dell’artificio telematico, l’educazione si sterilizza e si disumanizza: la macchina si sostituisce al rapporto umano, lo schermo al libro, la tastiera alla penna. 

L’alunno si trasforma in paziente, dipendente dalla protesi tecnologica, in predicato di diventare una sorta di automa addestrato ad obbedire alla macchina che gli è assegnata in dotazione (in attesa che questa prenda definitivamente il sopravvento; e col pericolo concreto, per i più piccoli e indifesi, di diventare preda inerme di ogni sorta di rapina morale). Sulla stessa università, trasformata in un ectoplasma, è calato un silenzio tombale. 

Ma non basta. Il sistema vuole adesso che l’alunno diventi anche un paziente clinico sotto osservazione permanente dei funzionari della sanità, alleati con le autorità scolastiche. Lo stato di salute dello scolaro è affidato alle strutture preposte, che vestono la divisa dell’“esperto”, prima e magari in sostituzione della famiglia, la quale rischia di essere posposta o esautorata per presunte esigenze di salute pubblica, o per il miglior interesse (best interest) del minore stesso. Con il risultato che questi è ridotto a materiale di laboratorio, cavia degli esperimenti di cui sopra (UNESCO) ed è mascherato, tamponato, tracciato, vaccinato, pena il divieto di accesso e l’emarginazione dal gruppo dei pari. 

Privato, tra l’altro, di quelle sicurezze e di quei punti di riferimento che sono anche le sue difese naturali, in primis la sua famiglia. E fa anche questo parte del piano.

A questo punto, una volta creati eserciti di individui isolati, indifesi e ostaggi fissi del dispositivo elettronico, l’obiettivo di controllarli, manipolarli, eterodirigerli è chiaramente a portata di mano. La propensione alla conformità non si presenta nemmeno più come una disposizione acquisita, vuoi per attitudine vuoi per costrizione, ma viene proprio inserita nel sistema operativo dell’individuo, impastata insieme alla sua stessa personalità in via di formazione.

Del resto, è l’ossessione del controllo ciò che connota il nuovo totalitarismo democratico, che ha assunto oggi la forma arcigna del biototalitarismo. E qui è d’uopo una breve digressione fantascientifica – ma fantascientifica solo in apparenza, perché di fatto è tutto già realtà anche se quasi nessuno se ne accorge e ne valuta le ricadute devastanti. 

Abbiamo visto come il conformismo sia inoculato per via educativa a mezzo scuola, ma è dietro l’angolo un altro tipo, ancor più penetrante, di conformismo, addirittura genetico. Le nuove tecniche faustiane di ingegneria eu-genetica che sono intimamente e inscindibilmente connesse con la fabbricazione dell’uomo in laboratorio – il grande affare della provetta, della fecondazione in vitro – non fanno altro che programmare i connotati dell’essere umano direttamente nella fase preimpianto, su modello zootecnico. Già abbiamo i bambini aids-free, come le famose gemelline cinesi nate nel 2019 geneticamente modificate con la tecnica CRISPR (cioè il procedimento biotecnologico di taglia e cuci molecolare con cui viene tagliato il DNA, vengono sostituiti dei geni, i cosiddetti geni bersaglio, e poi viene ricucita la catena genetica). Un co-scopritore del CRISPR, George Church, lo ha detto a chiare lettere che «fare il bambino con il CRISPR sarà come vaccinarlo». La provetta cioè, di fatto, può diventare come una sorta di vaccino preventivo incorporato nel procedimento di fabbricazione del manufatto umano, in modo che questo possa essere consegnato all’aspirante genitore insieme al relativo certificato di garanzia: prodotto immune all’HIV, al morbillo, alla meningite, al Covid, ma anche, per esempio, dotato di ossa indistruttibili, o di orecchio assoluto. Del resto, nel mondo anglosassone la selezione dei bambini con gli occhi azzurri è già oggi realtà commerciale (cioè: si scartano gli embrioni che alla diagnosi pre-impianto risultano con probabile occhio marrone). Di fatto, cioè, stiamo consegnando ai signori delle farmaceutiche il controllo di qualità e di quantità sulle nostre vite, presenti e future.

In cambio dell’illusione di ottenere il figlio perfetto, munito dei connotati scelti da catalogo, liberato a priori da una lista di malattie e affrancato dai rischi connessi alla lotteria della natura, in cambio di questa illusione, cediamo il rubinetto della vita alle multinazionali del farmaco e ai filantropi che le controllano, che possono accenderlo o spegnerlo a piacimento, e condurre impuniti i loro esperimenti eugenetici al riparo del mito scientista. L’agenda stabilisce che la procreazione, da naturale, deve pian piano diventare sintetica. Cioè de-sessualizzarsi (il sesso viene relegato a funzione ricreativa, ma sterilizzato) e spostarsi verso il paradigma della “fertilizzazione” come nella zootecnia (con relative selezioni e manipolazioni tecnologiche). Edwards – lo scienziato che ha conquistato il Nobel per la medicina per aver fatto nascere la prima bambina concepita in provetta, Louise Brown (1978), che quando è morto, nel 2013, contava già qualche milione di “figli” virtuali – preconizzava compiaciuto che «presto sarà colpa dei genitori avere un bambino portatore di disordini genetici». Vale a dire che la normalizzazione della provetta deve gradualmente portare verso la demonizzazione della generazione naturale. Il nostro ministero della salute diceva della FIVET che «nata come risposta terapeutica a condizioni di patologia specifiche e molto selezionate, sta forse assumendo il significato di un’alternativa fisiologica». E “alternativa fisiologica” è il passaggio che precede appena la “scelta obbligata”: la procreazione naturale, quella affidata alla roulette russa della natura, diventerà un rischio assurdo e correrlo sarà ritenuta una scelta irresponsabile, da persone civilmente ineducate e anche un po’ egoiste perché oggi il progresso è in grado di tecnicamente eliminare gli imprevisti e di esaudire ogni desiderio attraverso la riprogenetica, sterilizzata e selettiva, quella che produce e consegna designer babies su ordinazione, chiavi in mano e in garanzia. 

E così l’uomo si derubrica a manufatto di precisione, a prodotto industriale come un altro, soggetto alle regole del mercato e alla logica del profitto, diventa un codice a barre, monade senza identità, privata persino delle radici di un padre e di una madre, di un grembo e di una famiglia, spezzandosi quella catena che, da che mondo è mondo, lega insieme le generazioni. 

Digiuno di cultura, di logica, di storia e di bellezza, il nuovo ominide globalizzato e informatizzato, che emette suoni sconnessi, comunica a mezzo emoticon e fluttua nell’eterno presente e nello spazio virtuale della cosmopoli, ma solidamente educato alla legalità, e quindi pronto a obbedire a ogni ordine autoritativo senza chiedersi alcun perché, costui coopererà felice alla liquidazione fallimentare della straordinaria civiltà a cui, inconsapevole, appartiene, nell’inerzia di quanti dovrebbero avere interesse a frenare lo scempio, di sicuro ne hanno la responsabilità.

Ma l’Italia, erede privilegiata di una storia più che due volte millenaria, è terra di elezione di un patrimonio spirituale fatto di pensiero, di lingua, arte, scienza; fatto di una storia tramandata, di una cultura sedimentata, di una identità di sangue e di terra in cui riconoscersi.

Ovvero, di tutti quegli ingredienti che, soli, possono fare da contrappeso alla miope e disumanizzante prepotenza della tecnica, e da vero antidoto all’imbarbarimento – di linguaggio, di pensiero, di costumi – travestito da progresso; ingredienti che, per questo, vanno difesi a tutti i costi contro il delirio di onnipotenza dei signori apolidi del globalismo che stanno tentando sull’Italia, con inusitato accanimento, i loro esperimenti di ingegneria sociale con l’obiettivo di aspirare l’anima di un popolo e di dissolvere una immensa civiltà.

Gli italiani non dovrebbero far altro che riscoprirsi degni custodi di tale patrimonio, il che implica la fatica di studiarlo e conoscerlo, per custodirlo e per trasmetterlo alle generazioni a venire. È solo da qui che potremo giocarci la rimonta. «Considerate la vostra semenza: Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza».

Passerà questa sbornia, e qualcuno prima o poi dovrà pur ricostruire qualcosa sulle macerie di una società rimasta senza più forza di ragione. Per questo, credo sia necessario predisporci fin d’ora a fare ciò che molto icasticamente diceva Guareschi in uno dei passaggi più belli della saga di don Camillo: di fronte al mondo che corre rapido verso la propria autodistruzione e all’uomo che dissipa il patrimonio spirituale che in migliaia di anni aveva accumulato, bisogna fare ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme (letteralmente!). «Se il contadino avrà salvato il seme, quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, potrà gettarlo sulla terra resa ancor più fertile dal limo del fiume, e il seme fruttificherà e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza».

Per tornare a noi, questo significa trovare il modo – prima che sia troppo tardi, cioè finché c’è ancora qualcuno che sia in grado di farlo – per continuare a trasmettere alle nuove generazioni la ricchezza di uno straordinario patrimonio culturale, quel sapere dalle radici profonde che non trova più spazio nei templi abbruttiti del pensiero usa e getta, delle idee effimere e della omologazione coatta; quel sapere che, invece, produce frutto nel tempo e aiuta a sviluppare liberamente le proprie risorse intellettuali e morali, insieme a una adeguata attitudine critica e a una conoscenza non superficiale delle cose: che è capace di offrire, cioè, gli strumenti speculativi indispensabili per abbracciare la realtà, interpretare il presente e affrontare il futuro attrezzati come si conviene, perché è più che mai necessario esserlo, oggi, attrezzati. 

Occorre in conclusione trovare ad ogni costo, nella palude del conformismo deteriore che ci affligge e che ci sta soffocando, il modo per formare ancora delle menti libere e, in quanto libere, capaci di essere fieramente antagoniste.

Testo della relazione alla nona edizione del convegno internazionale “Euro, mercati, democrazia”, dal titolo “… e conformismo”, svoltosi a Montesilvano (PE) nei giorni 17 e 18 ottobre 2020.

Il video dell’intervento

Condividi

Correlati