Paola Mastrocola, già autrice di uno dei libri più lucidi e tempestivi sulla deriva dell’istruzione in Italia[1], e Luca Ricolfi hanno pubblicato qualche mese fa uno studio, Il danno scolastico, in cui rilevano che i frequenti cambiamenti per rendere democratica e ugualitaria la scuola, nell’umiliarla sul piano culturale, l’hanno trasformata in un danno per i ceti inferiori: omettendo di istruirli, essa li priva di un mezzo efficace di ascesa sociale, e indirettamente avvantaggia chi proviene dai ceti elevati, a cui è rafforzato il consueto monopolio delle posizioni più ambite. In una parola, la scuola ugualitaria non solo fa mancare le condizioni necessarie al riprodursi della civiltà, ma realizza il contrario di quello che vuole instaurare, esaspera cioè la disuguaglianza sociale.
Aver tematizzato l’uguaglianza ha consentito agli autori di chiamare in causa il ruolo che i suoi fautori svolgono nella crisi della scuola. Benché ispirate da istituzioni sovranazionali orientate al neoliberalismo, le riforme dell’istruzione hanno acquisito il loro furore palingenetico perché sono state implementate da una burocrazia ministeriale erede dell’ideale ugualitario e legata alla prassi della rivoluzione dall’alto. Mastrocola e Ricolfi individuano con precisione il mezzo con cui essa ha scatenato la rivoluzione pedagogica: le sue innovazioni si sono spinte oltre il diritto allo studio, fino ad affermare un nuovo, inaudito, diritto al successo formativo.
Difficile non avvertire la loro differenza: diritto allo studio è la forma preliminare del diritto al lavoro, è il diritto alle condizioni iniziali necessarie a padroneggiare i mezzi con cui la libertà provvede a sé rendendosi utile agli altri; diritto al successo formativo è invece il dono del fine senza la fatica del mezzo, senza la durezza della disciplina. Il salto mortale dalla scuola che potenzia la libertà dandole accesso ai mezzi, alla scuola che consegna un successo scontato a discenti ridotti ad assistiti – quest’acrobazia dall’uguaglianza delle condizioni iniziali all’uguaglianza del risultato definisce l’essenza della scuola attuale.
La burocrazia palingenetica non ignora che l’elusione del mezzo significa in generale la rinuncia al fine. Essa fronteggia l’inconveniente, in parte, ricorrendo al residuo della vecchia passione rivoluzionaria da sempre ostile alla scienza disinteressata («Odio gli indifferenti», confessava Gramsci), ridimensionando cioè il fine teoretico della scuola entro il confine delle competenze utili; in parte, con un’eco della polemica neoliberale contro lo Stato, rappresentando i docenti come inutili fannulloni per spostare dai discenti su di loro tutta la fatica del mezzo. Ai docenti è dunque imposto di uscire dall’antica autosufficienza teoretica, dalla superba torre d’avorio, e di mettersi all’inseguimento delle esigenze del mercato e del territorio; inoltre, non più conoscitori e amanti delle loro discipline, ma tecnologi della didattica in perenne tensione innovativa, devono diventare capaci di portare il discente al piccolo obiettivo economicamente funzionale senza che se ne accorga, mentre gioca davanti a un video. Il risultato finale della mancata istruzione è dissimulato dall’ipocrisia di rilasciare certificati che attestano il successo di attività mai iniziate, il raggiungimento di mete verso le quali non ci si è neanche incamminati. La stessa burocrazia ministeriale riconosce l’evidenza del fallimento, ma, anziché al suo attivismo sconsiderato, lo imputa ossessivamente ai residui della vecchia scuola e alla senilità ostile dei docenti, dunque, anziché cogliervi l’occasione del ripensamento, ne fa lo stimolo a ulteriori ondate di innovazione pedagogica.
La spericolata sostituzione dello studio del discente con la tecnologia didattica del docente vuole nobilitarsi attribuendosi il titolo di «sperimentazione». Benché in Italia siano state istituite cattedre di pedagogia sperimentale, il titolo è più adatto a sollevare perplessità che a diffondere aura scientifica. Sperimentare significa semplificare i nessi fenomenici fino a mostrarli come esempi di nessi causali universali, così da passare dall’apparente casualità alla necessità sostanziale. Feconda nella conoscenza della natura, nell’ambito spirituale la sperimentazione genera un contrasto tra l’oggetto e il fine: l’oggetto è un io non solo casuale, ma libero, in grado, cioè, di sottrarsi al nesso di causalità; sperimentare sullo spirito equivale dunque a farlo regredire all’automatismo naturale delle risposte, cioè a violarlo. Non è difficile avvertire nel cinismo sotteso alle sperimentazioni scolastiche l’eco degli esperimenti sociali con cui l’utopia novecentesca intendeva plasmare l’uomo nuovo piegando la volontà degli uomini viventi. Oltre a reggersi sul terrore poliziesco, nel suo lato costruttivo, l’utopia si ridusse alla manipolazione propagandistica della realtà per produrre falsa coscienza. L’attuale scuola sperimentale non sfugge a questo destino: la rinuncia all’impegno teoretico è compensata dal fiorire delle «educazioni», vale a dire dalla manipolazione al servizio delle ideologie più in voga.
Aver introdotto nella scuola il diritto al successo formativo è l’effetto ultimo dell’estraneità di un volontarismo utopico ancora inestinto alla sobrietà dello spirito teoretico. Poiché disprezza la conoscenza, che è la luce sulla realtà, il volontarismo è abituato a chiudersi in un buio solo momentaneamente squarciato dai lampi delle sue nobili intenzioni; in quest’oscurantismo che si sente illuminato perché ignora le conseguenze del suo fare, si verifica, tra le altre, la collisione dell’ugualitarismo progressista con la mobilità sociale, che Mastrocola e Ricolfi rilevano. Essa è meno paradossale di quanto possa apparire: essendo la facilità con cui gli individui si spostano da una classe all’altra, la mobilità sociale presuppone l’esistenza di classi differenti, implica dunque una concezione, se non positiva, almeno tollerante della differenza sociale; ma il diritto della differenza non può essere ammesso dal volontarismo utopistico che fa dell’uguaglianza il principio etico supremo, superiore perfino alla libertà.
La libertà di solito è intesa come fare ciò che si vuole senza nuocere agli altri – una concezione che esprime più la sua casualità e la sua limitatezza che la sua essenza. Vi è però implicito che la libertà è il potere della volontà. Questo potere ha due significati: come negativo, essa è respingere ogni vincolo e ritrarsi nel proprio sé; come positivo, è l’estendersi dell’io fuori di sé, il dominium sulle cose e l’altrui riconoscimento di questo dominio. La proprietà e il diritto, come dominio riconosciuto della persona sulle cose e come irriducibilità della persona a cosa, sono dunque l’esistenza positiva della libertà. Sul potere privato, sul dominio che la persona esercita sulla cosa, si eleva il potere pubblico, l’imperium, che è tale solo in quanto si esercita sulle persone conservandole come tali. L’imperium che diventi dominium sugli uomini è invece la degenerazione dello Stato in tirannia: il potere pubblico si fa privato e riduce le persone a cose.
L’uguaglianza dipende dalla libertà. Essa non è nell’immediatezza corporea e spirituale degli individui, che è differenziata secondo qualità e quantità, ma nel riconoscimento del dominio di ogni io sulle cose, nel riconoscimento di ogni io come persona. Poiché però l’uguaglianza delle persone è almeno compatibile con la loro disuguaglianza come individui, l’ugualitarismo la trova ipocrita e mira, anziché ad assicurare le condizioni del riconoscimento effettivo della personalità di ognuno, all’uguaglianza degli individui, a spegnerne l’io nel noi, dunque ad abolire la proprietà e la persona. La buona intenzione di eliminare per sempre l’umiliazione a cui gli individui possono essere esposti si rovescia nel generalizzare l’umiliazione annientando la persona.
L’intero Novecento è tormentato da buone intenzioni che avvelenano le sorgenti del bene. Mastrocola e Ricolfi ricordano come Don Milani abbia condannato la scuola accusandola di impedire l’emancipazione dei poveri. A suo dire, la scuola ha respinto Gianni perché gli ha imposto la cultura elevata a cui lui, povero che neanche parla italiano, non poteva accedere, e ha promosso Pierino perché, ricco, aveva già succhiato dal suo ambiente famigliare gli elementi della cultura elevata[2]. Don Milani ha inteso superare l’esclusivismo programmatico della scuola gentiliana, non tanto chiedendo che gli insegnanti incoraggiassero e aiutassero Gianni nel suo sforzo più intenso per acquisire la conoscenza disinteressata di cui l’ambiente familiare non gli aveva dato gli inizi, quanto con una svolta radicale, accarezzando l’immagine di una scuola senza cultura, che bandisse la grammatica, l’astrazione matematica, l’Iliade tradotta dal Monti e la lingua latina, e le sostituisse con il giornale e il contratto dei metalmeccanici[3]. Don Milani è così divenuto il riferimento della scuola attuale che, pur non avendo più Gianni nelle sue aule, rinuncia allo sforzo della conoscenza disinteressata, cioè attua il peggio del trionfo dell’ignoranza per combattere il male, esagerato ad arte, dell’esclusione sociale. L’ugualitarismo non vi trova un inconveniente proibitivo, perché la simpatia umanitaria che ostenta per Gianni non è che un riflesso di una più radicale antipatia per Pierino e per la differenza.
Mentre la differenza, con i suoi inesauribili capricci, eccita il desiderio di tagliare corto, l’uguale è semplice, dunque facile da conoscere, evidente al punto da sembrare vero. Non solo la mancata elaborazione storiografica dell’ugualitarismo novecentesco, perfino le dimostrazioni consuete, quelle che more geometrico riportano le proposizioni non evidenti, perché complesse, alle proposizioni evidenti perché semplici, possono rafforzare il prestigio dell’uguaglianza e lasciare intatto il pregiudizio, caro all’invidia, che in definitiva ogni differenza sia solo un male da superare. – A noi sembra che una certa indulgenza verso l’ideale dell’uguaglianza si faccia sentire addirittura nel «Danno scolastico». Esso procede a dimostrare la sua ipotesi con semplificazioni tali che infine non comprendiamo se faccia proprio l’ugualitarismo per combattere gli avversari sul loro terreno o perché non ne è libero. A p. 183 le varie sfumature sociali sono ridotte dapprima a 6 classi, che sono poi polarizzate in due categorie: ceti alti e ceti bassi. Queste semplificazioni, certo necessarie per assoggettare le relazioni sociali al calcolo, non sono esse stesse calcoli, non sono manipolazioni analitiche indifferenti al contenuto, ma trasformano qualitativamente il loro oggetto. Mentre infatti le differenze sociali sono una ricca gamma in cui si incrociano le complementarità che consentono la relativa autonomia della società civile, il loro semplificarsi nell’opposizione alto/basso equivale alla visione messianica, per cui la differenza sociale non è essenzialmente divisione del lavoro e collaborazione, ma è essenzialmente sfruttamento e lotta di classe. Così, a p. 178, appare una retorica compromettente: «Nella categoria ceti alti ci sono in tutto quaranta (milioni di) persone, di cui dieci precipitano nei ceti bassi e trenta riescono a rimanere in quelli alti.» Se il figlio di un insegnante preferisce fare il contadino e l’altro figlio preferisce fare l’insegnante, secondo questa retorica non seguono la strada che si sono scelti e nella quale possono entrambi realizzarsi, ma, come due naufraghi nella burrasca, il primo precipita dal ceto alto nel ceto basso, il secondo riesce a rimanere nel ceto alto. Non solo. Si legge nella stessa pagina: «Ora il rapporto fra vincitori nella corsa sociale e vinti non è 2 ecc.» Sembrerebbe che anche per gli autori la società non sia essenzialmente un differenziarsi collaborativo in cui ci sono momenti di conflitto conciliati dalle istituzioni giuridiche, ma una gara («corsa sociale»), che termina con dei vincitori, i «ceti alti: borghesia, classe media impiegatizia, piccola borghesia urbana» e con dei vinti, i «ceti bassi: piccola borghesia agricola, classe operaia urbana, classe operaia agricola». Questa accettazione del mito della società come lotta per accaparrarsi i posti migliori ha senz’altro il vantaggio di scoprire la contraddizione dei progressisti: quella di aver dequalificato la scuola per amore dell’uguaglianza, e proprio per questo aver intensificato la disuguaglianza; vale a dire, aver indebolito la democrazia per rafforzare la democrazia. Tuttavia c’è un compito anche più urgente: uscire dall’orrore teorico e pratico del Novecento germinato dall’odio di classe leninista, liberarsi dal primato della ragione pratica e dalle sue semplificazioni, e riconoscere il primato della ragione teoretica, che sa riconoscere la differenza, restituire i diritti al presente e al passato, rimettere a Dio il futuro.
In questa prospettiva, la conoscenza non è solo strumento di promozione sociale, ma è fine incondizionato. Padroneggiare la scrittura, saper misurare i fenomeni, conoscere le lingue, non è solo utile ad altro, è utile in sé stesso, significa ridurre l’estraneità dell’oggetto, vivere in un esterno nel quale si è non solo alienati come se si fosse al buio, ma anche riconciliati con sé dalla luce delle cose; in una parola, significa essere liberi. Se non è posta sul piano del significato intimo della conoscenza, la critica all’incubo progressista si perde essa stessa in schemi sociologici omogenei alla concezione materialistica della storia. Così sembra la concezione leninista della società come guerra civile quella che ispira queste proposizioni a p. 198: «È come se la qualità della scuola avesse la capacità di catapultare un ragazzo da un mondo sociale a un altro, facendolo viaggiare fra un contesto in cui può giocare le sue carte e uno in cui il suo destino è sostanzialmente segnato dall’origine: accettare l’abbassamento della qualità della scuola significa consentire che il viaggio sia verso l’inferno della disuguaglianza, in cui sono i Pierini a vincere e i Gianni a soccombere.» Per quanto sia un momento della libertà stessa che ognuno possa raggiungere la posizione sociale in cui dispiegare il talento e la capacità di lavoro, la dipendenza del soggetto dalle aspirazioni di carriera è, come ogni dipendenza, un vizio: ambizione, o anche vanità. Ma è stupefacente che si parli di inferno della disuguaglianza dopo che il secolo da cui proveniamo è stato segnato dal disprezzo dell’uomo negli inferni dell’uguaglianza, e ancora più stupefacente che si identifichi l’alta condizione sociale con la vittoria e la condizione sociale bassa con la sconfitta, quasi che il lavoratore non abbia un io e non possa godere della stessa libertà e dignità dell’imprenditore, quasi che al primo sia preclusa la felicità e all’altro sia assicurata
La scuola che disciplina i suoi alunni in modo che apprendano può certo facilitare loro una posizione che la sociologia giudica superiore ad altre; tuttavia, oltre a fare molto per la loro promozione sociale – mostrarlo con i numeri è l’obiettivo del libro e bisogna essergli riconoscenti del tentativo –, come pure per il progresso complessivo dell’umanità, essa fa molto di più per la loro libertà e la loro felicità: li sottrae al sogno della soggettività narcisistica, li desta al valore dell’oggettivo – li incoraggia a darsi un carattere libero. Come sempre, nel lavoro condizionato dal fine esterno è contenuto un più importante raggiungimento di fini incondizionati.
La distruzione della scuola in nome della guerra al classismo non seguiva un piano razionale, ma era sospinta da una muta di istinti oscuri: l’attivismo totalitario del burocrate, l’arrivismo conformista dei presidi, la rassegnazione cinica degli insegnanti, l’irresponsabilità dei genitori che si lasciano illudere dalle valutazioni alte, la grettezza di un capitalismo italiano che non apprezza, neanche tollera, la cultura disinteressata, e soprattutto il nichilismo di un istinto ugualitario che disprezza la conoscenza per affidarsi alla magia del volontarismo. Ricolfi e Mastrocola hanno il grande merito di rompere con l’ipocrisia e di chiamare le cose con il loro nome; poiché però deve fronteggiare istinti più che progetti, la critica della scuola ugualitaria attuale deve non solo rilevare il rallentamento della mobilità sociale, ma anche porsi su un piano più profondo, cioè quello della critica del volontarismo magico che disprezza la verità presente e si gloria delle magnifiche intenzioni.
[1] La scuola raccontata al mio cane, Guanda, Parma 2004.
[2] Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1986, p. 19: «Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi. Appartiene alla ditta. Invece la lingua che parla e scrive Gianni è quella del suo babbo. Quando Gianni era piccino chiamava la radio lalla. E il babbo serio: ‘Non si dice lalla, si dice aradio’. Ora, se è possibile, è bene che Gianni impari a dire anche radio. La vostra lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo da scuola». La giusta esigenza di non escludere a priori l’alunno si confonde con la riduzione della lingua colta a un gergo, cioè con il disprezzo del fine teoretico.
[3] Ibid., pp. 23-30.