Nei giorni scorsi il Manifesto ha preso posizioni sulla crisi greca che a molti sono apparse sconcertanti. Da titoli dove una manovra recessiva diventava misura per la crescita (“Atene, 12 miliardi per la crescita”), all’identificazione di Piazza Syntagma con “L’Europa siamo noi” o di Tsipras come “Il cuore d’Europa”, sino alla perorazione di una nuova Ventotene. Il giornale ha finito così per accodarsi al coro per cui dalla crisi europea si esce solo con “più Europa” non scavando a fondo sulle ragioni ultime del fallimento europeo e dando spazio insufficiente ad altre posizioni in merito.
Nei più avveduti, la necessità che un’unione politica completi l’unione monetaria muove dalla constatazione che quest’ultima non costituisce un’”area valutaria ottimale”. Si argomenta così che un’unione monetaria sostenibile implica un’unione politica, la sola che può garantire che i paesi forti si facciano carico, attraverso un cospicuo bilancio federale, dei paesi deboli. Mentre il mercantilismo tedesco è di ostacolo a tale unione, un argomento più di fondo per dimostrare che un’Europa politica è pur possibile, ma solo con uno Stato minimale, viene da un vecchio saggio di Hayek del 1939.
La sua argomentazione è che una federazione fra nazioni economicamente e culturalmente disomogenee (si potrà poi ragionare sull’importanza relativa dei due aggettivi) e che controlli un cospicuo ammontare di risorse, non potrà durare a lungo. Essa si fratturerà presto sui criteri di distribuzione delle risorse e/o del potere di allocarle. La fine dell’ex-Yugoslavia è l’esempio più evidente. E basti guardare a quello che è accaduto in questi giorni. Che legittimazione avrebbe avuto un’ipotetica autorità federale europea di andare contro la volontà di molti paesi di non aiutare la Grecia a sollevarsi? Non sarebbe neppure stato troppo democratico, a ben vedere. Questo pone la parola fine al sogno dei più tenaci europeisti per cui il problema dell’euro si risolverebbe completando l’unione monetaria con l’unione politica.
L’astuto Hayek precisa che politicamente sostenibile sarebbe invece uno Stato federale “leggero”, con poco o nessun potere redistributivo e che si occupi solo di regolamentare i mercati e poco altro. Esso sarebbe non solo possibile, ma desiderabile. Per un liberista, naturalmente, non certo per un socialista. Non sorprende che, tanto per fare un esempio nostrano, i più ostinati federalisti italiani siano i radicali, tenaci liberisti in economia – più sfumato Bordin, ma ai limiti del fanatismo Cappato che infatti plaudeva al fondo de il manifesto per una nuova Ventotene. E non è un caso che il Rapporto dei 5 Presidenti (Draghi, Junker ecc.) sulla riforma politica dell’UE si rifaccia fondamentalmente al modello Hayek: nessuna funzione fiscale perequativa a Bruxelles, banca centrale monetarista e limitazione all’autonomia fiscale degli Stati nazionali. E’ il modello di Europa ordo-liberista che, a quanto sembra, la Germania si prepara a rilanciare nel dopo-Grecia.
In tal modo si completerebbe il disegno hayekiano che svuota del tutto gli Stati nazionali dei poteri monetari e fiscali, privando le classi lavoratrici nazionali del loro terreno naturale di conflitto: il proprio Stato nazionale. La democrazia si riduce così alle lotte per le libertà civili, coerentemente ritenute centrali dai radicali (il resto la fa il mercato). Si completa così anche la globalizzazione: non solo il capitale si sottrae al conflitto delocalizzando, ma anche lo Stato si fa evanescente – di esso rimane solo il sorriso beffardo del gatto di Alice lassù da Bruxelles.
Naturalmente l’indefesso internazionalista ci dirà che a fronte della globalizzazione di Stato e capitale, anche il lavoro si deve internazionalizzare e creare fronti sovra-nazionali. La storia è tuttavia parca di esempi in questa direzione. L’intreccio fra lotte per l’indipendenza nazionale e per il socialismo è invece un classico della storia del movimento operaio.
L’inaudita violenza tedesca e la conseguente drammatica chiusura dalla vicenda greca con il rafforzamento di austerità e perdita di sovranità per quel popolo, impone che la sinistra prenda coscienza delle ragioni profonde della crisi europea, e smetta di attribuirla a una generica tecnocrazia neoliberista. Vi sono ragioni materiali per cui questa è l’unica Europa possibile ed è quella che le élite desiderano, avvantaggiandosi anche dell’ingenuo europeismo della sinistra. Più che di una nuova Ventotene, l’Europa sembra aver bisogno di una nuova Vestfalia che ripristini la sovranità democratica degli stati europei rilanciando una cooperazione su basi più eque.
Questo è il nuovo fronte di lotta per la sinistra.
Sergio Cesaratto