Duemila miliardi di Pil andati in fumo dal 2008

Alberto Bagnai 18 August 2016

Ci siamo lasciati la scorsa settimana dicendoci che le recessioni ci sono sempre state, ma il problema è che oggi non ci sono le riprese. Una frase che, mi rendo conto, rischia di suonare come la stantia trasposizione alla crescita economica di un altro grande classico: “Non ci sono più le mezze stagioni”. Per evitare il pericolo, vorrei approfondire, condividendo con voi due scoperte di questa settimana.

La prima è toccata a un mio lettore. Siamo in epoca di grigliate, e rovistando fra la carta straccia per accendere il caminetto l’amico ha trovato un preziosissimo reperto: il «Panorama» del 25 dicembre 1975, anno della terza recessione più grave dell’Italia nel dopoguerra, dopo quelle del 2009 (Lehman) e del 2012 (Monti). L’articolo di pagina 116, intitolato “Odore di ripresa”, ci riporta a un mondo che non esiste più: quello in cui i giornalisti fornivano fatti; quello in cui una rivista “generalista” dedicava sei pagine a una descrizione della congiuntura internazionale, con tanto di grafici e glossario, di una qualità che oggi inutilmente cercheremmo nella stampa cosiddetta economica; e, naturalmente, quello in cui le riprese c’erano.

“Italia: crescita dal 3% al 4%”, recita un sottotitolo. Previsione prudente: nel 1976 la crescita infatti fu del 7%, tre punti sopra la media del decennio (4%). Commuove il rispettoso spirito critico col quale l’anonimo giornalista presenta le analisi di Andreatta e Basevi (non proprio due di passaggio). Quanto eravamo lontani dalla generazione attuale, quella degli epistemologi da Bar Sport, per i quali siccome “l’economia non è una scienza”, allora “la mia opinione vale quanto la sua”. E dei fatti? Ne vogliamo parlare?

Torna utile la seconda scoperta: rovistando nell’hard disk ho trovato le serie storiche del Pil trimestrale italiano dal 1970 al 1995. Sul sito dell’Istat non le troverete: me le dette all’epoca niente meno che l’ex presidente (e ministro del Lavoro con Letta) Enrico Giovannini, quando collaboravamo con Francesco Carlucci alla Sapienza. Bei tempi quelli, in cui tutto pensavo tranne che un giorno avrei partecipato al dibattito pubblico. Poi è successo, e la prima cosa che mi ha colpito, confrontandomi con i politici, è che a essi sfugge totalmente la gravità di quanto ci sta accadendo. Il fatto è che per rendersene conto bisogna mettere le cose in prospettiva, cosa che i nostri amici del Bar Sport non sanno fare, del che si scusano dichiarandola inutile. Rimediamo, facendola noi.

Chart FQ

In figura vedete gli ultimi 186 trimestri di Pil italiano, dall’inverno del 1970 (sì, proprio quello preceduto dal famoso “autunno caldo”, quando i sindacati facevano i sindacati anziché i corifei delle riforme) alla primavera di quest’anno. Prima dell’ultima crisi, quella iniziata nell’estate del 2008 con lo shock Lehman, i dati del Pil trimestrale sono pressoché indistinguibili dalla propria tendenza statistica.

Le recessioni, o le semplici stagnazioni (crescita vicino a zero, che oggi è normale, ma allora non lo era), sono seguite da riprese in cui il Pil accelera, tornando back on track (come dicono gli economisti), cioè sul suo sentiero di crescita di lungo periodo. Succede nel 1975, come vi ho detto, e poi nel 1993, quando una recessione dell’1% venne seguita, nel 1994, da una crescita del 2%. Non il 7% del 1976 (certo, i tempi erano cambiati), ma abbastanza per recuperare le perdite subite.

E poi? E poi arriva la crisi del 2008, che, a differenza delle precedenti, ci coglie privi di qualsiasi strumento di politica economica: non quella di bilancio, che non si può fare, o almeno non possiamo farla noi (mentre noi mendichiamo flessibilità, il deficit spagnolo viaggia intorno al 5% del Pil); non quella monetaria, che non si può fare perché ci pensa Draghi nell’interesse di tutti (gli altri); non quella valutaria, che non si può fare perché non abbiamo più una valuta nazionale.

Ah, naturalmente se l’Europa (chi?) ci impedisce di fare politiche è solo nel nostro interesse, perché noi non ne siamo capaci, come dimostrano i risultati ottenuti nei terribili anni Settanta, quando eravamo “in mezzo al Mediterraneo con della carta straccia in tasca” (citando un odierno statista).  Il grafico però racconta una storia diversa, più coerente con l’economia, che magari non sarà una scienza, ma un suo buon senso ce l’ha. Il buon senso suggerisce che se prima di pestarti ti legano le mani, è capace che ti facciano più male. I dati lo confermano.

Dopo l’evidente “scalino” fra estate 2008 e primavera 2009, l’Italia, legata, non accelera come le altre volte: semplicemente, si mette a crescere al ritmo precedente, il che non basta per recuperare il terreno perduto. Poi arriva Monti, e il Pil si appiattisce. Nel trimestre scorso è stato pari a 388 miliardi. Se fossimo restati o tornati sulla tendenza pre-crisi, quella seguita per 38 anni, avremmo invece avuto un Pil di 481 miliardi: un dato di 93 miliardi superiore. Se sommiamo tutti questi scostamenti dall’inizio della crisi, il conto è salato: il divario fra storico e tendenziale cresce nel tempo e la sua somma, dal 2008 al 2015, è pari a 1.949 miliardi in meno. Tutto questo perché fortunatamente l’Europa (e l’euro) ci proteggono da noi stessi. Ma siamo veramente sicuri che degli inetti come noi riuscirebbero a far di peggio se abbandonati a se stessi?

Alberto Bagnai
Il Fatto Quotidiano, 17 agosto 2016

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