L’insostenibile peso del Peso che ha ri-affossato l’Argentina

Alberto Bagnai 28 January 2014

La svalutazione del peso, che avevamo previsto nel mese di luglio, si è presentata puntuale all’appello, seguita dalla solita grottesca commedia degli equivoci: “Hai visto? Meno male che l’euro ci protegge! Pensa se avessimo fatto come l’Argentina…”. Gli equivoci sono due: il primo è che in effetti noi stiamo proprio facendo come l’Argentina; il secondo, che l’Italia non è l’Argentina. Nonostante gli eroici sforzi dei mezzi di informazione per farci credere che una moneta si svaluti quando è “debole”, un minimo di logica basta a capire che le cose stanno al contrario: una moneta tende a svalutarsi quando è troppo “forte” per il paese che l’adotta, cioè quando è sopravvalutata.

La quotazione del peso argentino era destinata a cedere proprio perché sopravvalutata rispetto al valore di equilibrio. Cosa determina questo valore? La teoria economica non ha risposte univoche, ma tutti ammettono che uno dei parametri più importanti è senz’altro l’inflazione interna. Se questa è superiore a quella dei principali partner commerciali del paese, i beni interni vanno fuori mercato, e quelli esteri diventano più convenienti. Il paese comincia così a indebitarsi con l’estero per comprare beni esteri (che non può più finanziare esportando), a meno che il cambio, troppo forte, non ceda, cosa che alla fine immancabilmente fa, nel qual caso i creditori esteri sopportano il rischio di aver incautamente finanziato un paese a rischio.

Da quando siamo entrati nell’euro, anche noi abbiamo una valuta “forte”, e anche noi siamo entrati in crisi. Può sembrar paradossale, ma per gli economisti è chiaro che è proprio la “forza” dell’euro a renderci simili all’Argentina, mettendoci su un percorso di crisi. Lo aveva detto Nouriel Roubini nel gennaio 2006 su lavoce.info, e lo ha ribadito Romano Prodi su «Il Mattino» del 20 gennaio scorso, specificando che avremmo bisogno di una svalutazione dell’euro di almeno il 15% (con buona pace di Rajoy che ha sottolineato l’importanza di avere “un euro forte”).

Altro dettaglio: l’Italia non è l’Argentina, non solo perché gli Appennini non sono le Ande, ma soprattutto perché i motivi che spingono i due paesi a “difendere” un cambio insostenibile sono diversi. Da noi, si sa, ci sono i Trattati. Circa l’Argentina, le risposte non sono univoche. Alcuni economisti, come Roberto Frenkel, attribuiscono la politica del “cambio forte” alla volontà del governo di domare l’inflazione, alimentata da una spesa pubblica eccessiva.

Un’interpretazione che contrasta col fatto che dallo scoppio della crisi il deficit pubblico argentino è stato in media del 2.8% del Pil (valore identico a quello della virtuosa Austria, per fare un esempio). Altri, come Roberto Lampa, chiariscono che in paesi come l’Argentina, esportatori di materie prime ma dipendenti da beni di consumo importati, una svalutazione ha effetti regressivi, colpendo di più le classi meno abbienti (quelle con maggiore propensione al consumo). La Kirchner avrebbe quindi “difeso” il cambio per non vanificare gli effetti delle sue politiche redistributive dai redditi alti a quelli medio bassi prima delle elezioni, rischiando di perderle. Passata la festa, gabbato lo santo.

Difficile capire da qui chi abbia ragione, perché tutti concordano sul fatto che i dati statistici ufficiali sull’Argentina sono inaffidabili. Ad esempio, il fatto che il dato “ufficioso” sull’inflazione sia circa il doppio di quello ufficiale spiega come mai gli osservatori si aspettano che la brusca svalutazione dell’8% in un giorno, che ha portato il dollaro a costare 8 pesos, non sia sufficiente a ristabilire un equilibrio.

Una conferma indiretta arriva dal cambio sul mercato nero (attorno ai 12 pesos per dollaro). Un fatto però emerge, ed è che nel nostro paese gli effetti regressivi li sta determinando il cambio forte. Mentre in Argentina fra il 2001 e il 2010 l’indice di disuguaglianza di Gini pare sia sceso di quasi 9 punti, in Italia è aumentato di due punti, meno che in Germania (+4), ma più che in Inghilterra (-2). Un dato da sottoporre a chi ci racconta che in Europa il cambio fisso sarebbe “di sinistra”.

Alberto Bagnai
Il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2014

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