Produzione Industriale: i numeri di un disastro che non ha precedenti

Alberto Bagnai 11 August 2016

Due elettori mediani commentano il fatto politico del giorno: “Hai visto che scandalo? Poi dicono che c’è la crisi! Ma il problema è che se sò magnati tutto…”. L’amico, sconsolato: “Che ci vuoi fare: ogni popolo ha i politici che si merita…”. Su queste parole i due si congedano, ebbri di assolutoria autocommiserazione. Ognuno di noi ha assistito a simili siparietti. Qualcuno invece potrebbe essersi perso un fatto che apparentemente non ha nulla a che vedere con quanto precede. Il 5 agosto scorso, alle 12:19, l’«Ansa» ha twittato: “Istat, economia frena, meglio ultimi mesi”. Frenare, in italiano, significa diminuire la propria velocità. Letto così, il lancio sembrerebbe indicare che l’economia italiana cresca di meno (freni), ma che negli ultimi mesi la situazione stia migliorando (cioè si stia tornando a crescere di più). Nei dati leggiamo che a giugno l’indice della produzione industriale (Ipi) è diminuito dello 0,4%, mentre a maggio la diminuzione era stata dello 0,6%.

L’«Ansa» ha ragione: la velocità dell’economia italiana è diminuita. Quindi tutto bene? Non me ne voglia l’agenzia di stampa, ma direi di no. Non stiamo andando “meglio” (crescendo di più): stiamo andando “meno peggio” (diminuendo di meno). Non stiamo frenando: stiamo andando a marcia indietro, e questa non è una sfumatura, ma un fallimento epocale.

Renzi è in carica dal febbraio 2014, quando l’indice della produzione industriale era a 91,6. Ventotto mesi dopo l’indice è a 91,8: un aumento dello 0,2%, e questo mentre l’Unione Europea, nostro principale cliente, è ripartita, passando dall’1,4% al 2% di crescita fra 2014 e 2015. Certo, nessuno si aspetta che oggi la produzione industriale possa raddoppiare in un decennio, come al tempo del miracolo economico (fra 1955 e 1965), con un paese da ricostruire. Ma il -18% del decennio 2005-2015 è una catastrofe senza precedenti.

Chart FQ

Negli ultimi 64 anni le due annate più infauste per l’Ipi sono state il 2009 (-19%) e il 1975 (-9%). La terza ce l’ha regalata Monti (-6% nel 2012), riportando l’indice ai valori di 26 anni prima (ma questo i media ce l’hanno taciuto, vantando i successi delle “riforme”). Da quando siamo nell’euro, un anno su due è stato in rosso (ci verrebbe un bel titolo, che nessun giornale ha mai scritto).

Le recessioni, naturalmente, ci sono sempre state: il problema è che oggi non ci sono le riprese. Questo non è un caso: è il cambio rigido, che in caso di crisi costringe a tagliare i salari per recuperare competitività. Rendere i lavoratori ricattabili col jobs act facilita il compito. Incassata questa “riforma” la Confindustria ricambia il favore al governo: i suoi economisti elogiano la riforma costituzionale, con uno studio sbriciolato da Massimiliano Tancioni sul “Menabò di etica ed economia” (cosa che la stampa allineata non credo vi abbia detto). Quanto agli industriali, poverini, loro proprio non arrivano a capire che dipendenti sottopagati sono clienti col braccino corto: distruggere il mercato interno per inseguire quello estero non è una buona idea, e il fallimento di Renzi è tutto in questa frase (che lui non capirebbe, e che chi lo circonda, occupato a mettersi in salvo, non ha tempo di spiegargli).

I danni dell’euro sono ormai conclamati. L’ultimo rapporto sui mercati esteri del Fondo monetario internazionale, pubblicato il 27 luglio, è cristallino: a 17 anni dall’adozione, l’euro è ancora troppo forte di circa il 5% per Italia e Francia, e troppo debole di circa il 15% per la Germania (nessun giornale italiano ve l’ha detto, ma ai francesi ne ha parlato il Figaro). Non a caso il 29 aprile il dipartimento del Tesoro americano ha messo la Germania nella lista dei manipolatori di valute (cosa che avete letto solo qui). I nostri media, però, continuano tetragoni a ripeterci che ci siamo scelti degli ottimi compagni di strada (sarebbero quelli della Volkswagen, per capirci), e che se non ce la facciamo è colpa nostra.

Il grafico è eloquente: gli episodi di contrazione prolungata dell’Ipi sono tre, e coincidono con l’entrata nel Sistema Monetario Europeo (inizio degli anni ’80), con il suo irrigidimento (inizio degli anni ’90) e con l’entrata nell’euro (dal 1999). È naturale che in un paese esportatore come il nostro l’eccessiva rigidità del cambio porti con sé de-industrializzazione. Porta anche accresciuta mobilità dei capitali, che fa molto comodo all’industria finanziaria. Insomma: alle banche.

Come dimostra Luigi Zingales sul blog dell’Università di Chicago, queste controllano in vari modi i giornali, con l’unica eccezione del «Fatto Quotidiano» (ipse dixit). Sarà per questo che qui ogni tanto trovate notizie non allineate. Torno al punto: per scegliere bene i politici, gli elettori hanno bisogno di informazioni corrette, senza le quali la democrazia non funziona.

Se siamo nei guai, quindi, non è solo per colpa dei politici che ci siamo scelti noi (e che quindi ci meriteremmo), ma anche per colpa dei media che ci hanno scelto le banche (e che forse non ci meritiamo). Non è insomma colpa loro se, bombardati dal messaggio che “va tutto bene”, gli italiani non riescono a scegliere politici che facciano anche i loro interessi, e non solo quelli della finanza internazionale. Parafrasando Brecht: “Sventurata la democrazia che ha bisogno di blogger”.

Alberto Bagnai
Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2016

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