Eurostat ha reso noti stamane i dati più recenti sull’andamento dell’occupazione nell’Unione Europea e nell’eurozona. Dati abbastanza buoni nella media, ma non per tutti. Negli ultimi dodici mesi, fra l’aprile 2016 e l’aprile 2017 vi è stato nei 28 paesi dell’Unione un aumento complessivo dell’occupazione dell’1,5 per cento. Nei 19 paesi dell’area dell’euro l’aumento è stato dell’1,4 per cento. Rispetto all’ultimo trimestre del 2016, l’aumento è stato in ambo i casi dello 0,4 per cento. Se confermato nei prossimi trimestri, su base annua si tratterebbe di circa l’1,6%, pressoché eguale all’anno appena trascorso. Sono risultanze nel complesso coerenti con le previsioni di crescita del reddito nazionale nel 2017 per i 28 paesi dell’Unione e per l’eurozona, resi noti qualche settimana fa dalla Commissione Europea. La previsione europea è stata rispettivamente di un aumento dell’1,9 per cento per l’Unione Europea e dell’1,7 per cento per l’eurozona.
Tutti questi dati confermano che è in atto una ripresa economica in Europa – anche se non certo un boom – che porta con sé un aumento dell’occupazione ed un lenta riduzione del tasso di disoccupazione che nell’eurozona scenderebbe dal 10% a 19,4% nel 2017 e dall’8,5 all’8 per cento nell’Europa a 28. Come spesso succede l’andamento complessivo dei dati, però, non racconta tutta la storia. La verità è che in molti Paesi europei la crescita del reddito e la crescita dell’occupazione sono più alte della media. In qualche caso molto più alte. Mentre il risultato complessivo è tenuto basso dai risultati sfavorevoli di alcuni paesi, che però pesano molto per popolazione sul totale. Così per l’occupazione spiccano i dati dell’Irlanda (+3,5%), del Portogallo (+3,3%), della Spagna (+2,4%) e dell’Olanda (+2,0%), oltre che di alcuni altri Paesi minori.
Mentre vanno molto meno bene i tre grandi paesi a cominciare dalla Germania che ha un aumento eguale alla media (1,5%), dall’Italia e dalla Francia con, rispettivamente, un aumento dell’occupazione dell’1,0% e dello 0,7%. Lo stesso vale per le previsioni della crescita del reddito nel 2017. Rispetto alla media dell’1,9% l’Unione Europea nel suo insieme, per 18 Paesi, cioè molto più della metà, si prevede una crescita superiore alla media mentre per 10 la crescita sarà inferiore alla media. Ma fra questi vi sono di nuovo la Germania, seguita dalla Francia e dall’Italia. A questo punto, qualcuno potrebbe dire che in fondo essere accomunati alla Francia e alla Germania giustifica per l’Italia una certa rassegnazione, che ha caratterizzato da molti anni a questa parte la politica economica dei governi. Mal comune. Se non fosse che questo ragionamento è sbagliato perché non tiene conta dei punti di partenza. L’occupazione cresce poco in Germania, ma il tasso di disoccupazione tedesco è inferiore al 5% – per l’esattezza è previsto al 4% a fine 2017 – cosicché una crescita modesta del reddito e dell’occupazione conferma una situazione già essenzialmente soddisfacente e semmai aiuta ad evitare che si sviluppino pressioni inflazionistiche (che di fatti dall’ultima rivelazione di Eurostat non vi sono in Germania).
La situazione francese e quella italiana sono ben diverse. In Francia la disoccupazione sta nel 2017 praticamente al 10% mentre per l’Italia essa si collocherà ancora all’11,5%. Si tratta sia per la Francia che per l’Italia di cifre praticamente doppie di quelle che si registravano in questi paesi nel 2007, prima della grande crisi economica di quegli anni. Di fronte a livelli di disoccupazione così elevati non solo ci sarebbe spazio, ma vi è anche il dovere civico, di impostare delle politiche economiche che spingano verso l’alto la crescita e che consentano un riassorbimento effettivo della disoccupazione che si è creata in questi anni. In Germania ci si può preoccupare di non alimentare una febbre inflazionistica che creerebbe sicuramente un notevole malessere sociale. Ma in Francia e in Italia il malessere sociale c’è già e per curarlo non c’è altra strada che incidere sui livelli della disoccupazione. Se uno imponesse alla Germania una politica espansionistica, le creerebbe dei problemi e comunque la Germania la rifiuterebbe. Perché invece Francia e Italia dovrebbero accogliere con gratitudine nel proprio Paese una politica che va bene a chi gode già della piena occupazione?
Dunque anche questi dati confermano l’assurdità di avere dato vita a una costruzione economica come è l’Unione Monetaria Europea, che obbliga ad applicare le stesse politiche a Paesi che hanno problemi, necessità e condizioni fra loro diverse. Per la Germania che, come si è detto, parte da una situazione di piena occupazione, un orientamento piuttosto restrittivo della politica economica ha un senso. Anzi rappresenta forse una necessità. Un senso molto diverso ha lo stesso orientamento se applicato alla Francia o all’Italia che soffrono di un problema opposto. Naturalmente, quando in sede europea si fanno presenti questi problemi, che del resto sono abbastanza evidenti, viene risposto che non bisogna limitarsi a confrontare i dati sulla crescita o sulla disoccupazione. Bisogna anche guardare i dati della finanza pubblica. E da lì si vede che la Germania ha i conti in ordine, mentre non è così né per la Francia – con il suo elevato deficit annuale – né soprattutto per l’Italia con il suo altissimo debito pubblico accumulato. Dunque – dice l’Europa – mettete a posto i conti e poi potrete dedicarvi a stimolare una crescita più alta. Anzi, probabilmente a ben guardare è l’eccesso della spesa pubblica che ha finito per rinsecchire le possibilità di sviluppo della vostra economia.
Non ci sarebbe quindi solo la differenza fra crescita migliore e crescita peggiore; vi è anche la differenza fra bilanci pubblici in ordine e bilanci in disordine. Il difetto di questa osservazione è che si tratta di capire quale è la causa e quale è l’effetto. I tedeschi forse pensano che la loro piena occupazione sia il premio per la loro parsimonia nella spesa pubblica e la disoccupazione italiana sia la pena per la nostra dissolutezza. Senza invocare la retribuzione celeste, si potrebbe osservare che un Paese in crescita tende ad avere i bilanci pubblici in ordine perché c’è maggior reddito, maggior gettito fiscale e minor necessità di usare la spesa pubblica a fini di sostegno dei redditi. Al contrario, un Paese che non cresce avrà una tendenza della spesa ad eccedere le entrate sia per la debolezza di queste ultime, sia per le pressioni che si scaricano sugli enti pubblici quando le condizioni economiche e sociali sono negative.
Sono questioni complesse su cui gli economisti discutono da molte decine di anni. Quello che però è sempre più evidente è che la pretesa di infilare a tutti una maglia della stessa misura prova effetti sempre più distorti.
Giorgio La Malfa
Il Mattino, 15 giugno 2017