Diversificazione finanziaria, concentrazione della proprietà e ruolo dello Stato

Fulvio Corsi 29 January 2024

La c.d. “Teoria moderna del portafoglio”, benché ormai vecchia di più di mezzo secolo, essendo stata sviluppata negli anni ’50 e ’60, fornisce una prescrizione molto semplice di quello che dovrebbe fare un investitore per investire al meglio i propri fondi, cioè per ottimizzare il rapporto rischio-rendimento del suo portafoglio. Sotto una serie di condizioni piuttosto generali che includono quelle neoclassiche standard sul funzionamento dei mercati, la normalità della distribuzione dei rendimenti e l’esistenza di un titolo privo di rischio, qualsiasi investitore può massimizzare la sua utilità semplicemente investendo una proporzione della propria ricchezza nel titolo privo di rischio ed il resto nel c.d. portafoglio di mercato, un portafoglio cioè massimamente diversificato che contiene tutti i titoli presenti sul mercato con proporzioni pari alle rispettive capitalizzazioni di ciascun titolo. È importante sottolineare che questo risultato teorico vale per qualsiasi investitore, sia egli ricco o povero o sia egli più o meno avverso al rischio, quello che cambia è solo la proporzione con cui questi due tipi di investimento (il titolo privo di rischio ed il portafoglio di mercato) vengono combinati tra di loro nel portafoglio ottimo di ciascun investitore. Questo significa che per consentire ad ogni investitore di massimizzare la propria utilità è sufficiente che gli vengano forniti solo due titoli: un titolo privo di rischio (o risk free) e un titolo che riproduca il portafoglio di mercato (molto spesso identificato semplicemente in un ampio indice di mercato come, per esempio, l’S&P500 per il mercato azionario americano). Questo notevole risultato è noto in letteratura come “Teorema di separazione dei due fondi” ed è frutto del lavoro di molti eminenti studiosi di economia finanziaria, tra cui svariati premi Nobel come Harry Markowitz, James Tobin, William Sharpe. Questa strategia di investimento in cui tutti acquistano e detengono, anche se in quantità e proporzioni diverse, lo stesso identico portafoglio rischioso rappresentato dal portafoglio di mercato è chiamata strategia di investimento a gestione passiva ed è quella da sempre propugnata dal mondo accademico (essendo in accordo con la teoria dei mercati efficienti fortemente sostenuta in ambito accademico).

Tuttavia, nel mondo della consulenza e della pratica finanziaria ha dominato per molti anni una visione alternativa secondo la quale da un lato era consigliabile che il portafoglio rischioso fosse ritagliato su misura del risparmiatore in base alla sua propensione al rischio (portafogli più aggressivi, cioè con un maggior peso ai titoli più rischiosi, per soggetti meno avversi al rischio, e portafogli più difensivi per quelli più avversi al rischio) e dall’altro che fosse possibile “battere il mercato”, avere cioè un rapporto rischio-rendimento migliore di quello del portafoglio di mercato, grazie alle capacità del gestore di scegliere opportunamente i titoli vincenti (selection) ed il momento adatto in cui entrare o uscire dal mercato (timing). Questo insieme variegato di strategie di investimento, dinamiche e selettive, è genericamente indicato con il termine di gestione attiva di portafoglio. Nella gestione attiva le competenze e le capacità del gestore giocano, ovviamente, un ruolo determinante ed, altrettanto ovviamente, necessitano di essere adeguatamente remunerate. Per loro natura le gestioni attive sono quindi eterogenee, difficilmente scalabili e costose.

Motivato da un articolo del premio Nobel Paul Samuelson del 1974 in cui si auspicava l’introduzione di uno strumento di investimento che replicasse il mercato, John Bogle, il fondatore di Vanguard, nel 1976 lanciò il primo fondo indice (o index fund o ETF) che replicava l’andamento dell’indice S&P500 (il precursore del Vanguard 500 Index Fund). Per molti anni il mondo della finanza ha mostrato un forte scetticismo per queste forme di investimento alternative alle lucrose gestioni attive. È solo negli ultimi decenni, ed in particolare da dopo la crisi finanziaria del 2008 che ha colpito duramente le gestioni sia attive che passive mostrando chiaramente come sia in realtà molto difficile battere il mercato, che enormi masse di risparmio gestito hanno iniziato a spostarsi dalle costose gestioni attive alle più convenienti gestioni passive. Nel corso degli anni sono nati numerosi index fund o ETF legati ad una sempre più ampia gamma di mercati e settori e, nell’offerta di questi prodotti, a Vanguard si sono affiancati altri due colossi del risparmio gestito in forma passiva, State Street e, quello che è poi diventato il più grande dei tre, Blackrock. Insieme, queste tre grandi società di investimento rappresentano la quasi totalità del risparmio gestito in forma passiva e sono comunemente indicate con il termine di Big 3.  Al contrario delle gestioni attive, quella passiva, essendo basata su regole automatiche, non richiede particolari competenze, è facilmente scalabile e presenta commissioni molto ridotte. La competizione in questo settore si gioca quindi quasi esclusivamente sulla dimensione delle masse di risparmio gestito. Per tale motivo si è assistito ad una rapida concentrazione di questo mercato nelle mani delle tre più grandi società, le Big 3 appunto.

Se da un lato questo fenomeno rappresenta l’attuazione pratica delle prescrizioni teoriche della Teoria moderna del portafoglio e consente anche ai piccoli investitori di diversificare i propri investimenti a costi molto contenuti, dall’altro esso comporta, come vedremo, una serie di implicazioni estremamente rilevanti non solo di natura economica o finanziaria.

La prima conseguenza fondamentale è che un elevato grado di diversificazione produce necessariamente un alto grado di similitudine nelle strutture azionarie delle società quotate. Cioè, se tutti investono in tutte le società nelle stesse proporzioni, tutte le società saranno possedute dagli stessi azionisti nelle stesse proporzioni. Questo ha delle implicazioni molto profonde sul grado di concorrenza tra le aziende e sul corretto funzionamento di tutti gli altri mercati non finanziari dei beni e servizi. Perché è chiaro che due aziende dello stesso settore si faranno concorrenza tra di loro fintanto che saranno di proprietà di soggetti diversi, ma se entrambe fanno capo agli stessi soggetti l’incentivo alla concorrenza verrà meno, mentre si rafforzerà l’incentivo a colludere per aumentare i profitti e i dividendi di entrambe (per un’importante evidenza empirica, si veda Azar, Schmalz e Tecu 2018). In tal caso, si finisce per avere un mercato che, sebbene formalmente composto da più aziende, è, nei fatti, del tutto analogo ad un monopolio. Tale riduzione del grado di concorrenza tra le imprese, indotta dall’aumento degli azionisti in comune, sembrerebbe inoltre rappresentare una naturale spiegazione del recente fenomeno della c.d. greedflation (inflazione indotta dalla crescita dei profitti) dalle evidenti ricadute distributive e altrimenti non così facilmente spiegabile (le imprese sono sempre state greed, cioè desiderose di aumentare i profitti, per definizione).

Esiste quindi una inconciliabile incoerenza di fondo tra la teoria neoclassica dei mercati finanziari (la teoria moderna del portafoglio), che prescrive la massima diversificazione, e la teoria neoclassica dei mercati non finanziari, che prevede la concorrenza perfetta. Ci troviamo perciò di fronte ad un vero e proprio dilemma tra diversificazione e concorrenza, in realtà cioè, non si possono avere entrambe (si veda il recente illuminante articolo di José Azar del 2020 dove il dilemma citato diventa poi un trilemma una volta che si introduce la presenza di manager separati dalla proprietà). È sorprendente come solo recentemente si sia presa consapevolezza a livello accademico della profonda incoerenza tra queste due basilari teorie neoclassiche dei mercati.

La diversificazione degli investimenti potrebbe essere in teoria ottenuta anche senza intermediari finanziari e ciò condurrebbe ugualmente al dilemma precedente. Tuttavia, il fatto che tale diversificazione nella pratica avvenga quasi totalmente attraverso i tre  grandi fondi di investimento citati configura uno scenario che, per certi versi, è forse ancora più preoccupante e cupo. Per capire perché, è necessario prima chiederci chi effettivamente finisca per esercitare i diritti di voto dei pacchetti azionari acquisiti attraverso le Big 3. Sebbene dal punto di vista strettamente legale il gestore del fondo d’investimento agisca solo come fiduciario nei confronti dei risparmiatori, che formalmente restano i veri proprietari e detentori del diritto di voto, nella pratica, tipicamente (si stima almeno nel 90% dei casi) il gestore del fondo aggrega le partecipazioni azionarie di tutti i suoi index fund e ETF ed esercita in blocco il diritto di voto di tutte le azioni che gestisce (a loro volta, spesso i gestori si rivolgono a società specializzate in consulenza per le votazioni nelle assemblee degli soci, i c.d. proxy advisor che, tuttavia, rappresentano un mercato ancora più concentrato, dominato da due soli soggetti, ISS e Glass-Lewis).

Al momento in cui questo articolo è stato scritto, dicembre 2023, la quantità degli investimenti gestiti dalle Big 3 risulta gigantesca e ancora in forte crescita: 9.400 miliardi di dollari per Blackrock, 7.700 miliardi Vanguard e 3.700 miliardi State Street, per un totale superiore ai 20.000 miliardi di dollari, all’incirca pari al PIL degli Stati Uniti e 10 volte quello italiano. Siamo perciò in presenza di un accentramento senza precedenti dei diritti di voto, e quindi del potere di controllo su un vastissimo numero di società quotate, nelle mani di un numero di soggetti molto ristretto. Già nel 2017 si stimava che ben l’88% delle società all’interno del S&P500 avevano come maggior azionista una delle Big 3.  John Bogle stesso in una intervista del 2018 al WSJ commentando la spinta alla concentrazione esercitata dalle economie di scala prevedeva: «If historical trends continue, a handful of giant institutional investors will one day hold voting control of virtually every large US corporation. Public policy cannot ignore this growing dominance, and consider its impact on the financial markets, corporate governance, and regulation. These will be major issues in the coming era». Inoltre, le Big 3 possiedono quote partecipazioni incrociate tra di loro molto elevate: Vanguard e State Street detengono il 12% di Blackrock; Vanguard e Blackrock possiedono il 18% di State Street; Blackrock e State Street hanno il 20% di Vanguard.  

Riassumendo, l’avvento della gestione passiva dominata dalle economie di scala ha portato alla concentrazione del risparmio gestito nelle mani delle Big 3 che attraverso i loro fondi detengono le quote di maggioranza di quasi il 90% delle principali imprese quotate. Come conseguenza di ciò, si ha non solo l’emergere di un monopolio in ogni settore, ma anche che tutti questi monopoli sono, di fatto, sotto il controllo dello stesso ristretto gruppo di persone. Se la presenza di un monopolio rappresenta una delle principali forme di fallimento del mercato, cosa si può dire di un sistema economico in cui in ogni settore vi è un monopolio e lo stesso gruppo di individui è monopolista in tutti i settori? Una architettura economica che generi un tale accentramento del potere, chiaramente non solo economico, è ancora compatibile con una società che aspiri a definirsi democratica? In presenza di monopoli naturali la teoria economica è sostanzialmente concorde nel ritenere necessario l’intervento dello Stato.  Posto che uno scenario di multi-monopoli di questo tipo, che si potrebbe definire di super-monopolio, sia ancora meno economicamente e socialmente auspicabile di un semplice monopolio, quali forme di intervento potrebbe intraprendere lo Stato per correggere questo “super-fallimento” del mercato?

La risposta a questa fondamentale domanda non è affatto semplice. Sulla possibilità di applicare norme antitrust esistenti o di introdurne di nuove non c’è al momento nessuna convergenza tra i giuristi. Il fatto che, dal punto di vista strettamente legale, i detentori dei diritti di voto restino formalmente i risparmiatori e che sia estremamente difficile dimostrare inequivocabilmente il nesso di causalità con eventuali comportamenti anticoncorrenziali e collusivi (anch’essi da dimostrare) rende estremamente difficoltoso raggiungere un consenso sufficientemente elevato da spingere il legislatore ad intervenire (si veda ad esempio la posizione del Giudice della corte d’appello Douglas Ginsburg). A ciò si deve realisticamente aggiungere l’influenza che le Big 3 sono in grado di esercitare sulla formazione del consenso. Infine, se anche un paese, ad esempio l’Italia, si convincesse della necessità di dotarsi di norme antitrust in questo ambito, come potrebbe introdurle e renderle effettive nell’attuale contesto giuridico altamente complesso e sovrannazionale dei mercati finanziari globali? 

In mancanza di efficaci norme antitrust è altamente improbabile che nuovi soggetti privati possano sfidare il dominio delle Big 3 rendendo il settore meno concentrato. Se questa strada non sembra al momento percorribile quali altre opzioni rimangono? A mio avviso, di fronte a questo pericolo di una concentrazione di poteri raramente osservata in passato, è legittimo applicare il principio “a mali estremi, estremi rimedi”: se, semplicemente grazie alle enormi economie di scala acquisite dalle Big 3, nessun altro soggetto privato è in grado di sfidare tale dominio, non resta che a farlo sia un soggetto pubblico. Purtroppo, vi sono circostanze in cui si è chiamati a dover scegliere il male minore, e a causa della recente evoluzione storica dei mercati finanziari oggi ci troviamo di fronte ad una difficile scelta: o lasciare questo super-monopolio in mano privata in assenza di qualsiasi forma di contrappeso e controllo, oppure affidarlo ad un soggetto pubblico che svolga il servizio di diversificazione per i cittadini in modo il più possibile trasparente e democraticamente controllabile. Si noti che tale servizio di diversificazione degli investimenti non richiede particolari capacità o competenze, come sarebbe invece richiesto per le gestioni attive, limitandosi alla semplice replica passiva di indici di mercato o di settore.  

L’introduzione di fondi pubblici come veicoli di investimento non sarebbe neppure una novità assoluta esistendo già i c.d. fondi sovrani (o sovereign wealth fund), che sono soggetti di diritto pubblico con la funzione di investire fondi pubblici sui mercati finanziari. Le principali differenze tra i fondi sovrani esistenti ed i nuovi fondi d’investimento pubblico sarebbero nella provenienza di tali fondi (introiti legati principalmente alla vendita di materie prime nazionali nel caso dei fondi sovrani verso risparmi dei cittadini nel caso del fondo d’investimento pubblico) e nella loro gestione, auspicabilmente caratterizzata da maggiore trasparenza e democraticità nei secondi. Il fondo pubblico d’investimento sarebbe cioè obbligato alla trasparenza, rendendo pubbliche tutte le quote azionarie complessivamente possedute e le posizioni assunte in fase di voto nelle assemblee degli azionisti. Potrebbe inoltre essere obbligato a prendere le proprie decisioni di voto in modo da perseguire l’interesse collettivo in un’ottica di lungo periodo e obiettivi di interesse comune come, ad esempio, la sostenibilità ambientale e sociale delle scelte aziendali. Chi scrive si rende perfettamente conto che la proposta di una “proprietà collettiva dei mezzi di investimento” possa suonare anacronisticamente marxista e soggetta a notevoli rischi e pericoli, ma nelle condizioni attuali anche il non fare niente comporta rischi e pericoli che, molto probabilmente, sono addirittura superiori.

Quale dimensione potrebbe realisticamente raggiungere un tale fondo di investimento pubblico? Anche limitandosi ad un’ottica nazionale si ricorda che la ricchezza finanziaria degli italiani è stimata in quasi 5.000 miliardi di euro, di cui 1.600 depositati nei conti correnti bancari, 3.000 miliardi di euro investiti in azioni, fondi comuni e polizze assicurative, e 227 miliardi di euro direttamente investiti in titoli dello stato. Perciò, se anche solo circa il 10% di questa ricchezza finanziaria fosse intercettata dai fondi di investimento pubblici, più di 400 miliardi di euro potrebbero essere utilizzati per aumentare le partecipazioni in imprese di interesse per il paese e, più in generale, per indirizzare le scelte aziendali a sostegno di una crescita di lungo periodo equilibrata e sostenibile.

Infine, per consentire ad ogni cittadino di costruire il proprio portafoglio ottimale sulla base del Teorema di separazione dei due fondi precedentemente descritto, lo Stato dovrebbe affiancare all’offerta di un fondo di investimento pubblico ben diversificato quella di un titolo realmente privo di rischio ed altamente liquido.  Questo secondo strumento finanziario privo di rischio, la cui esistenza è fondamentale non solo per i risparmiatori ma anche per i mercati finanziari in generale, potrebbe essere facilmente introdotto adottando la proposta recentemente avanzata del famoso macroeconomista finanziario di Chicago, Prof. John Cochrane. L’idea di fondo è che il Tesoro emetta una nuova forma di titoli del debito pubblico che siano: perpetui, con un tasso variabile a breve e trasferibili elettronicamente per qualsiasi ammontare. Avendo un tasso variabile a breve (quindi con una duration prossima a zero) ed essendo accettati dalla Pubblica Amministrazione alla pari, sarebbero titoli, come dice Cochrane, a valore fisso, cioè non soggetti a fluttuazioni nel valore di mercato. Un tale titolo, agli occhi di un risparmiatore, apparirebbe come un money-market fund o, più semplicemente, un conto corrente che paga interessi virtualmente privo di rischi (non soggetto, per esempio, al rischio bail-in). Dal punto di vista dello Stato invece, essendo perpetuo, avrebbe il non trascurabile vantaggio di non essere soggetto al problema del rinnovo e quindi alla “vigilanza”, come si sul dire, dei mercati finanziari che non sempre hanno obiettivi e orizzonti temporali coincidenti con quelli dello Stato.

Introducendo questi due nuovi strumenti finanziari complementari, lo Stato darebbe perciò una più completa ed effettiva attuazione al dettato costituzionale dell’Articolo 47, secondo cui «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme […]. Favorisce l’accesso del risparmio popolare […] al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese».


Fonti

Azar J., Schmalz M. C. and Tecu I., Anticompetitive Effects of Common Ownership. The Journal of Finance, Vol. 73 No. 4, August 2018, pp. 1513-1565. https://www.jstor.org/stable/26654659

Azar J., The Common Ownership Trilemma. The University of Chicago Law Review, Vol. 87 No. 2, March 2020, pp. 263-296. https://www.jstor.org/stable/26892412

Fichtner J., Heemskerk E. M., Garcia-Bernardo J., Hidden Power of the Big Three? Passive Index Funds, Re-Concentration of Corporate Ownership, and New Financial Risk. Business and Politics, June 2017. https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2798653

Bogle J. C., Bogle Sounds a Warning on Index Funds. The Wall Street Journal, November 2018. https://www.wsj.com/articles/bogle-sounds-a-warning-on-index-funds-1543504551

Ginsburg D. H., Why Common Ownership Is Not an Antitrust Problem. Harvard Law School Forum on Corporate Governance, December 2018. https://corpgov.law.harvard.edu/2018/12/04/why-common-ownership-is-not-an-antitrust-problem/

Cochrane J. H., A new Structure for U.S. Federal Debt. November 2015. https://static1.squarespace.com/static/5e6033a4ea02d801f37e15bb/t/5edab5b7d7810b00696fc365/1591391671915/New_Structure.pdf

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