Il recente bail-in di quattro banche italiane ha messo a nudo molte contraddizioni ed aporie dell’Eurosistema, tra cui:
- A che serve una vigilanza che si occupa di politica creditizia (con risultati opinabili) e consente al contempo il verificarsi di eventi come quelli di Banca Etruria?
- Banche private e bail-in sono compatibili con l’articolo 47 della costituzione repubblicana che prevede una tutela ad ampio raggio del risparmio?
- Perché Berlino ha potuto spendere oltre 280 miliardi per i suoi bail-out e Roma no?
Tutto già detto.
Forse ciò che non è stato evidenziato più di tanto è che, in un mondo di interessi negativi, nelle sabbie mobili di una trappola di liquidità, tali situazioni si riproporranno ancora per il semplice motivo che rendimenti “normali” implicheranno rischi “anormali” e che manca la benzina per il motore della banche (il margine di interesse).
Alla base di tutto è la distorsione deflazionistica della moneta unica, nota in letteratura e portata all’evidenza del grande pubblico in innumerevoli occasioni (un autorevole e preveggente riferimento di carattere divulgativo è Hahn, 1992). Tutti hanno ormai chiaro come l’adozione di una moneta unica svaluti il lavoro, perché rende necessario il ricorso alla svalutazione interna (cioè alla deflazione salariale) come principale strumento di aggiustamento macroeconomico.
La recente evoluzione, in particolare quella italiana, chiarisce che la deflazione implica a sua volta la svalutazione del risparmio, sotto vari profili:
- perché per uscire dalle secche della deflazione le Banche centrali forzano su valori nulli o negativi i rendimenti degli investimenti finanziari;
- perché la scarsa redditività aziendale causata dalla crisi di domanda (cioè dal taglio dei salari) alimenta le sofferenze bancarie ed espone quindi i risparmatori a drastiche perdite in conto capitale attraverso il meccanismo del bail-in;
- perché il rischio di bail-in è amplificato dagli scarsi rendimenti, che spingono i risparmiatori verso prodotti più rischiosi nel tentativo vano di non veder svalutato il reddito dei propri investimenti finanziari (secondo una dinamica che l’Autorità Bancaria Europea aveva ben chiara e aveva sottoposto all’attenzione delle vigilanze nazionali);
- perché lo schiacciamento verso il basso della struttura dei tassi di interesse comprime i margini di intermediazione e quindi amplifica il problema della scarsa redditività che caratterizza il settore bancario italiano.
La svalutazione del risparmio, a sua volta, disincentiva gli investimenti con effetti demoltiplicativi a catena.
In un tale scenario, un sistema finanziario costruito sulla dominanza di banche private governate da “regole” (nazionali o sovranazionali che siano) non può condurre fuori dalla selva oscura. La retta via è l’intervento dello Stato, nella pienezza delle suoi poteri monetari e fiscali. In effetti, solo politiche attive di domanda, finanziate anche con emissioni monetarie, possono rianimare l’economia sottraendola alla spirale deflattiva, e per evitare che la crescita determini squilibri nei conti esteri è indispensabile che gli Stati recuperino il controllo della propria politica valutaria. In assenza di tali leve – precluse dall’adesione all’Eurosistema – la nazionalizzazione del sistema bancario (praticata estesamente nel Nord Europa) diventa inevitabile strumento per il salvataggio del salvabile, l’unica altra alternativa essendo la svendita del patrimonio bancario all’estero.
L’euro si pone quindi in contraddizione con l’autonomia della finanza privata.
Questa contraddizione non è ancora stata capita fino in fondo né dall’élite finanziaria né dalle élite politica ed industriale italiane. Queste, finora, hanno convissuto in simbiosi sostenendo l’euro, che sembrava loro conveniente perché comprimeva i salari. Quando le nostre classi dirigenti capiranno che l’attuale assetto delle regole europee comprime anche i loro profitti e i loro spazi di potere politico, lo scenario politico dell’Eurozona potrà conoscere evoluzioni ad oggi insospettabili.
Charlie Brown