Cominciamo da qualche dato: secondo il sito infostat.bancaditalia.it il tasso d’interesse sui BOT a 3 mesi nel settembre del 1992 era al 18,05%; in ottobre scese al 15,51%, e un anno dopo (settembre 1993) all’8,86%: un calo di quasi 10 punti in un anno. Il «Corriere della Sera» del 16 maggio 2012, in un articolo a firma Marvelli e Pagliuca, evoca “il ricordo del 1992, quando il nostro Paese venne costretto ad abbandonare lo Sme”.
Avrà ragione la Banca d’Italia, secondo cui dopo la crisi del 1992 i tassi scesero rapidamente, o avrà ragione il Corriere, secondo cui “nel periodo successivo i Bot andarono al 17%”? Secondo il sito dati.istat.it il tasso di disoccupazione era al 6,4% nel 1977 e al 13,5% nel primo trimestre del 2014. Il 2 aprile del 2014 il «Corriere della Sera» titola in prima pagina: “Tanti disoccupati come nel 1977”. Avrà ragione l’ISTAT, secondo cui nel 1977 il tasso di disoccupazione era meno della metà che nel 2014, o il Corriere ritenendolo uguale a quello del 2014? Secondo il sito www.imf.org fra il 1980 e il 2015 il tasso di crescita delle esportazioni italiane è stato in media annua del 3.7%, e tale è stato in media anche fra 2005 e 2008.
Il «Corriere della Sera» del 1 gennaio 2017, in un articolo a firma Basso, afferma che “l’export ha avuto un boom fra il 2005 e il 2008 per effetto della moneta unica”. Avrà ragione il Fondo Monetario Internazionale, secondo cui fra 2005 e 2008 la crescita delle esportazioni fu allineata a quella degli ultimi 36 anni, o avrà ragione il Corriere, secondo cui quelli furono anni di boom? Potrei continuare ma mi fermo: vi ho annoiato abbastanza e il problema è noto. Era l’8 ottobre del 2013 quando avvertii su questo giornale di come fosse in atto un tentativo di riscrittura della storia, il cui scopo palese era convincerci che stiamo meglio oggi, sotto il protettorato di Bruxelles, di ieri, quando eravamo liberi di decidere a casa nostra.
A fronte di questa riscrittura della storia a suon di bufale da parte dei grandi media, inquietano le esternazioni di Pitruzzella, presidente dell’antitrust, tanto preoccupato dalla diffusione delle bufale nei social media da proporre la creazione di un’autorità indipendente di controllo. Qui i problemi sono due. Intanto, ci si potrebbe chiedere perché intervenga a chiedere di limitare la libertà di manifestazione del pensiero assicurata dell’art. 21 della Costituzione l’esponente di un organo che non ha rilievo costituzionale (in costituzione il CNEL c’è, l’antitrust no) e dovrebbe comunque occuparsi di altro.
Va ricordato che bufale come quella sulla disoccupazione “come nel 1977” sono state smascherate proprio dai social: il meccanismo di controllo quindi esiste già, ed è dato appunto dalla concorrenza fra media. È comprensibile la sete di rivalsa di quelli tradizionali, che “informano” come vi ho ricordato, e la cui credibilità nel 2016 è andata in pezzi. Tuttavia è paradossale che il garante della concorrenza intervenga per consolidare, anziché limitare, il potere di monopolio delle grandi testate. Tra l’alto, ultimamente le autorità amministrative indipendenti, dalla Banca d’Italia alla Consob, non hanno dato grande prova di quell’indipendenza da cui traggono legittimazione, dimostrando spesso subalternità alle scelte (errate) dei governi.
Facile prevedere che l’autorità “indipendente” per il controllo dei social diventerebbe un orwelliano Ministero della Verità. C’è poi un altro problema. Ovunque in Europa le politiche dissennate imposte da Bruxelles su mandato di Berlino rischiano di mandare al potere la destra. Siamo sicuri che sia una buona idea limitare libertà politiche come quella di espressione alla vigilia di un evento simile? Come è stato con la repressione dei salari (via “riforme”), così anche con la repressione del dissenso (via “antibufale”) sarebbe la sinistra in salsa europeista a fare il lavoro sporco per una destra che incombe minacciosa. È un rischio che non possiamo permetterci.
Alberto Bagnai
Il Fatto Quotidiano, 3 gennaio 2017